LA CULTURA DEL PAGAMENTI RAPIDI NELLA PA: LA CORTE COSTITUZIONALE SULLA LEGITTIMITÀ DELLE NORME IN MATERIA
LA CULTURA DEI PAGAMENTI RAPIDI: ANCHE LA CORTE COSTITUZIONALE SE NE OCCUPA CONFERMANDO LA LEGITTIMITÀ’ DELLE DISPOSIZIONI CHE LEGANO LE INDENNITÀ’ DI RISULTATO IN AMBITO SANITARIO AL RISPETTO DEI TEMPI DI PAGAMENTO
A cura di Emilia Piselli e Sara Lepidi
Gli enti del Servizio Sanitario Nazionale che pagano in ritardo i fornitori hanno l’obbligo di prevedere, nei contratti dei direttori generali e amministrativi, uno specifico obiettivo che condizioni almeno il 30 per cento dell’indennità di risultato al rispetto dei tempi di pagamento previsti per legge.
Questo il principio espresso nella sentenza n. 78 depositata il 24 aprile 2020, con cui la Corte Costituzionale ha respinto i ricorsi della Regione Lazio e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, riguardanti l’articolo 1, comma 865, della legge 30 dicembre 2018 n. 145 («Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021»), che ha sancito quest’obbligo specifico.
Le Regioni ricorrenti avevano sostenuto l’illegittimità della suddetta disposizione – per violazione del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost. – sostenendo la sua incidenza su materie di competenza concorrente («tutela della salute» e «coordinamento della finanza pubblica») e di competenza residuale («ordinamento e organizzazione amministrativa regionale») ed allegando la mancata previsione, da parte del Legislatore Statale, di idonei strumenti a garanzia della partecipazione regionale nelle distinte fasi di adozione e attuazione della norma.
La norma de qua, oltre a risultare lesiva dei princìpi di ragionevolezza e proporzionalità, si sarebbe posta (a dire delle ricorrenti) in contrasto con l’art. 117, commi 3, 4 e 6, Cost., stante il suo carattere di particolare dettaglio, tale da impedire al Legislatore Regionale di intervenire in materia attraverso norme di adeguamento autonomo alla disciplina statale.
La Corte ha respinto i ricorsi, riconoscendo costituzionalmente legittimo l’obbligo – posto a carico degli enti del SSN in ritardo nei pagamenti dei fornitori – di condizionare una quota-parte dell’indennità di risultato dei propri direttori generali e amministrativi al raggiungimento di uno specifico obiettivo: che sia assicurato il rispetto dei termini di pagamento dei debiti della pubblica amministrazione.
Secondo la Consulta, la disciplina oggetto di giudizio presenta senz’altro riflessi sulle diverse competenze regionali in materia di organizzazione sanitaria, ma incide su tali ambiti materiali solo mediatamente, qualificandosi come legittimo esercizio della potestà legislativa dello Stato in materia di «ordinamento civile». La norma impugnata, infatti, disciplina un istituto retributivo proprio del trattamento economico dei dirigenti, le cui vicende sono da ricondurre, come chiarito in precedenti arresti (sentenze nn. 19 del 2013, 53 del 2015, 196 del 2018 e 138 del 2019), alla materia «ordinamento civile», condizionando e finalizzando l’indennità di risultato al conseguimento del rispetto dei termini di pagamento.
In tal senso, l’art. 1, comma 865 si configura come norma finalizzata ad orientare la spesa pubblica al rispetto di tempi di pagamento certi delle obbligazioni pecuniarie della PA, dunque norma dell’ordinamento civile, volta al coordinamento dinamico della finanza pubblica, e perciò attinente alla sfera di azione normativa del legislatore statale.
La stessa previsione, inoltre, non svuota le competenze regionali in materia di «ordinamento e organizzazione amministrativa regionale», data la sua contenuta incidenza concreta, destinata a fissare direttamente solo una quota-parte dell’indennità di risultato dei DG degli enti sanitari, senza incidere quella restante.
Pienamente rispettati, quindi, i princìpi di ragionevolezza e proporzionalità, trovando la norma in parola applicazione solo per gli enti sanitari che non rispettino i tempi di pagamento (in nulla innovando per quelli virtuosi) e graduando le misure in relazione alla gravità del ritardo e, dunque, dell’inadempimento.
Del resto, ha osservato la Corte Costituzionale, la gravità dei problemi connessi al ritardo nei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione impone di ritenere particolarmente apprezzabili le esigenze che il legislatore statale ha inteso perseguire con l’intervento censurato.
Al riguardo, i Giudici hanno sottolineato la notevole incidenza che la disciplina dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie dei soggetti pubblici ha sul sistema economico, rilevando come i ritardi in questo settore compromettano la liquidità e la gestione finanziaria delle imprese, la loro redditività e competitività, il corretto funzionamento del mercato interno e lo stesso equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, in misura peraltro sensibilmente maggiore in periodi di crisi e recessione economica.
Consapevole dell’importanza del fenomeno dei ritardi – avvertita a livello europeo e già valorizzata nel contesto della direttiva 2011/7/UE, che ha rimarcato la necessità di «un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi» – il legislatore italiano si è mosso su più fronti, ponendo in essere molteplici interventi che hanno spaziato dall’imposizione di limiti più stringenti ai termini di pagamento (D.Lgs. n. 192 del 2012 s.m.i.), passando per l’incentivazione della cessione, a intermediari finanziari, dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni e all’utilizzazione degli stessi in compensazione di debiti tributari (art. 7, comma 1, d.-l. n. 35 del 2013), fino a giungere alla concessione straordinaria di liquidità agli enti debitori in vista della riduzione dello stock del debito accumulato (artt. 1, 2 e 3, d.-l. n. 35 del 2013).
Queste misure di intervento, unitamente alle risorse stanziate per arginare e correggere la patologia dei ritardi, hanno sì consentito miglioramenti rispetto alla situazione preesistente ma, secondo la Corte Costituzionale, in misura non ancora sufficiente, a ricondurre a dimensioni fisiologiche il problema.
Peraltro, nella recente sentenza della Corte di Giustizia Europea 28 gennaio 2020, (causa C-122/18) è stato accertato l’inadempimento della Repubblica italiana rispetto agli obblighi che discendono dall’art. 4 («Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni»), paragrafi 3 e 4, della richiamata direttiva 2011/7/UE, riconoscendo la responsabilità diretta dello Stato italiano per i ritardi di pagamento registrati sia a livello centrale che territoriale.
Già a ridosso del recepimento della richiamata direttiva 2011/7/UE, il Giudice delle Leggi aveva sottolineato come «il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione è obiettivo prioritario […] non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente» (sentenza n. 250 del 2013), stante il rilevante tema dell’esposizione debitoria per interessi passivi per ritardati pagamenti che, in considerazione anche del loro specifico e oneroso criterio di calcolo, riduce le effettive risorse da destinare alle finalità istituzionali.
Sulla scorta delle riassunte argomentazioni, la Corte ha pertanto ritenuto non fondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 865 e 866, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, poiché la norma rientra nella competenza statale esclusiva in materia di ordinamento civile ed è finalizzata al coordinamento dinamico della finanza pubblica, in quanto orienta la spesa pubblica verso il rispetto dei tempi di pagamento.