ALGORITMI, AUTOMAZIONE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: GLI ORIENTAMENTI DELLA GIURISPRUDENZA E LE PROSPETTIVE DI IMPLEMENTAZIONE

L’articolo “Algoritmi, automazione e pubblica amministrazione: gli orientamenti della giurisprudenza e le prospettive di implementazione“, di Pierluigi Piselli, pubblicato sul numero 01-02/2020 di TEME

 

Digital Transformation, quarta rivoluzione industriale, Information Age, Industria 4.0: sono tante le definizioni utilizzate per descrivere la fase in cui ci troviamo, caratterizzata dalla progressiva ed incessante diffusione delle nuove tecnologie intelligenti in pressoché tutti gli ambiti economici e sociali. L’utilizzo di strumenti innovativi come l’intelligenza artificiale, la robotica, il machine learning, i software algoritmici, è ormai cosi pervasivo e dirompente (“disruptive”, secondo l’espressione coniata da Clayton Christensen), da stravolgere completamente regole e schemi tradizionali consolidati, mettendo in discussione i fondamenti stessi su cui finora si sono basati società, sistema economici, aziende, professioni. Alcune delle tecnologie poc’anzi menzionate stanno trovando sempre maggiore spazio nella definizione delle nuove espressioni dell’agire pubblico, nell’ambito di un generale percorso verso la digitalizzazione di processi e attività propri della PA. In tale prospettiva, l’informatizzazione non è l’obiettivo in sé, ma va letta in chiave funzionale al principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, le cui concrete dinamiche organizzative incidono sulla struttura stessa del procedimento amministrativo, nonché sulle modalità di esercizio del potere.

Tuttavia è ancora assente una specifica disciplina di riferimento in grado di formalizzare sul piano normativo l’adeguamento delle tradizionali categorie giuridiche all’evoluzione digitale. Una qualche legittimazione normativa, seppur indiretta, all’uso di procedure automatiche e automatizzate da parte della PA, può essere individuata negli artt. 41 e 50 del D.lgs. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale – CAD) che, in combinato disposto con l’art. 3-bis della legge 241/1990, incentiva l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella gestione dei procedimenti amministrativi, consentendo la fruizione e la riutilizzazione dei relativi dati raccolti dall’amministrazione, al fine di assicurare, ex art. 12 CAD, «la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione, nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l’effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice in conformità con gli obiettivi indicati nel Piano triennale per l’informatica nella Pubblica Amministrazione».

Segnatamente, il citato art. 41 pone in capo alle PA l’obbligo di servirsi delle ICT nella gestione dei procedimenti amministrativi, aprendo di fatto la strada alla possibilità di assumere decisioni per mezzo di sistemi basati su algoritmi, in grado cioè di elaborare gli input immessi e tradurli in risultati che assumono direttamente la natura di provvedimento, senza l’intervento e/o il controllo di un supervisore umano[1] .

Sotto tale profilo, è innegabile che i vantaggi portati dalle nuove risorse tech – in termini di ottimizzazione di tempi, costi e risultati – sono perfettamente in linea con i già ricordati principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrata di cui all’art. 97 Cost. In assenza di una puntuale cornice normativa in materia, sono emersi in giurisprudenza orientamenti – non sempre univoci – sull’impatto delle innovazioni, in particolare dell’Intelligenza artificiale, nell’azione amministrativa [2].

Negli ultimi anni, infatti, il Giudice amministrativo è stato chiamato più volte a pronunciarsi sulla legittimità d’uso di software intelligenti per l’adozione di atti e provvedimenti[3]; in particolare, le pronunce hanno riguardato per la maggior parte le procedure informatiche utilizzate dal Ministero dell’Istruzione per la gestione della mobilità e la riorganizzazione del corpo docente sul territorio nazionale. Sul tema si è in più occasioni pronunciato il TAR Lazio, il quale, nella sentenza 22 marzo 2017, n. 3769, ha ricondotto il software che gestisce l’algoritmo «alla categoria del cd. atto amministrativo informatico di cui alla lett. d) dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990», (che tra i documenti amministrativi menziona ogni rappresentazione elettromagnetica del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione). Ciò sulla base di una serie di osservazioni sulla natura dell’atto amministrativo informatico, fondate a sulla distinzione tra atto redatto con strumento informatico (scritto al computer con un programma di videoscrittura) e atto a elaborazione elettronica. Anche quest’ultimo sarebbe contemplato nella nozione di cui al suddetto art. 22, poiché è il software che «concretizza la volontà finale dell’amministrazione procedente; è con il software che, in definitiva, l’amministrazione costituisce, modifica o estingue le situazioni giuridiche individuali anche se lo stesso non produce effetti in via diretta all’esterno; il software finisce per identificarsi e concretizzare lo stesso procedimento». Pare opportuno notare come, secondo la richiamata lettura, la “legittimità” dell’atto amministrativo a elaborazione elettronica non sarebbe da ricercare sulla falsariga della distinzione tra provvedimenti discrezionali e vincolati, ma sulla possibilità, «che tuttavia è scientifica e non invece giuridica, di ricostruzione dell’iter logico sulla base del quale l’atto stesso possa essere emanato per mezzo di procedure automatizzate quanto al relativo contenuto dispositivo»[4].

 

In successivi arresti (nn. 9224 e 9227 del 2018), il TAR Lazio ha evidenziato che, laddove sia demandato a un impersonale algoritmo lo svolgimento dell’intera procedura, non ricorra una vera e propria attività amministrativa.

A parere del Giudici, la relazione del privato con i pubblici poteri non può essere mortificata e compressa «soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche». Non vi è «complicatezza o ampiezza … di una procedura amministrativa, [che possa] legittimare la sua devoluzione ad un meccanismo informatico o matematico del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa, specie ove sfociante in atti provvedimentali incisivi di posizioni giuridiche soggettive di soggetti privati e di conseguenziali ovvie ricadute anche sugli apparati e gli assetti della pubblica amministrazione».

Ancora, il Collegio laziale ha sottolineato come nell’operare della PA, oltre ai canoni di trasparenza e di partecipazione procedimentale, occorre avere contezza anche del fondamentale obbligo di motivazione delle decisioni amministrative. In tale ottica, occorre conciliare la decisione robotica basata su processi automatici ed informatizzati spesso sconosciuti e non conoscibili, con il tradizionale obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo. Al riguardo, è stata negata la possibilità di rimpiazzare l’attività umana con un impersonale algoritmo, in quanto quest’ultimo si presenta “orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa”. Infatti, la circostanza che da un processo decisionale automatizzato possa scaturire l’adozione di un provvedimento amministrativo, per sua natura idoneo ad imporre unilateralmente modificazioni nella sfera giuridica dei destinatari, risulta particolarmente problematica sotto diversi profili. L’iter logico seguito dai giudici muove dalla premessa che un algoritmo, per quanto formalizzato per mezzo di un linguaggio ad hoc e, dunque, in linea generale in grado di garantire elevatissimi livelli di precisione nell’adozione delle sue decisioni, non permetta, in concreto, il rispetto delle garanzie del cittadino previste dalla legge n. 241 del 1990.

A tal proposito, il Tribunale ha osservato come a essere vulnerato non è solo “il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale”.

Un importante segnale di apertura è arrivato dalla sentenza n. 2270/2019 del Consiglio di Stato, il quale, pur dichiarando illegittima la procedura amministrativa informatizzata adottata dal Miur, ha fondato la propria decisione non sul presupposto del necessario intervento umano nell’iter decisionale ma, piuttosto, su caratteristiche proprie di quel sistema, che rendevano opaco il modo in cui i docenti venivano assegnati alle sedi di servizio. Quest’ultime, infatti, venivano individuate in base ad un algoritmo le cui modalità operative non erano state rese conoscibili agli interessati e, inoltre, i provvedimenti amministrati così adottati risultavano privi di qualunque motivazione, sottraendosi in tal modo a ogni forma di controllo da parte degli interessati. Nella decisione in parola, i Giudici hanno esplicitamente preso atto dei vantaggi offerti dall’utilizzo di processi decisionali automatizzati nell’ambito di procedure selettive standardizzate, aventi ad oggetto ingenti quantità di istanze valutabili sulla base di criteri oggettivi privi di qualsivoglia apprezzamento decisionale, sull’assunto di realizzare una significativa semplificazione dell’iter procedimentale, grazie ad una notevole riduzione della tempistica per la conclusione delle operazioni concorsuali, ove si riduce inoltre il rischio di possibili interferenze illecite che l’intervento umano di funzionari “infedeli” potrebbe arrecare alla garanzia di imparzialità della decisione, in diretta attuazione dei principi di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa di cui all’art. 1 legge 241/1990 secondo quanto prescritto dall’art. 97 Cost.

Evidenziando la stretta connessione sussistente tra l’implementazione di elevati standard di digitalizzazione della PA e l’efficiente erogazione di servizi pubblici di qualità per i cittadini/utenti, i giudici amministrativi hanno sancito il valore giuridico di un algoritmo – anche se espresso in forma matematica – alla stregua di un tipico atto amministrativo generale, come diretta declinazione dell’art. 97 Cost., coerente con l’avvento delle moderne tecnologie digitali[5]. La pronuncia in parola, dunque, reca importanti indicazioni di principio, che ribaltano il pregresso orientamento giurisprudenziale, incoraggiando il ricorso a tali tecnologie informatiche nell’esercizio dell’azione amministrativa. Tuttavia, il Supremo Collegio ha precisato come tale atti vità di digitalizzazione non possa comportare l’elusione dei principi che reggono l’azione amministrativa. Infatti, il software ha valore giuridico di atto amministrativo e, in quanto tale, l’algoritmo alla sua base deve essere conoscibile agli interessati e, allo stesso tempo, soggetto alla piena cognizione e sindacato del giudice amministrativo. In altre parole, al fine di garantire il rispetto del principio di trasparenza, devono essere sempre rese intelligibili le modalità attraverso le quali opera il sistema informatizzato cosicché, attraverso la ricostruzione dell’iter logico seguito, sia possibile sottoporre a verifica del giudice le decisioni adottate.

Con sentenza n. 7333 del 6 giugno 2019, il TAR del Lazio è tornato ad esaminare la tematica[6]. Richiamando l’art. 22 della legge n. 241 del 1990, il Collegio Laziale ha riconosciuto sussistente in capo ai ricorrenti l’interesse ad accedere al software usato per la procedura di selezione, (o meglio, al codice sorgente e all’algoritmo alla base dello stesso), in quanto funzionale alla possibilità di verificare l’esatto espletamento della prova e, quindi, all’opportunità di valutare l’esistenza di eventuali malfunzionamenti o bug che abbiano potuto inficiarne i risultati. Nella sentenza invero si legge che “il carattere informatico del file e del relativo algoritmo non fa venire meno la pretesa di parte ricorrente”, con la logica conseguenza che la relativa richiesta di accesso deve considerarsi legittima. Dunque il TAR, in aperto contrasto con le aperture del Consiglio di Stato, e riprendendo le argomentazioni svolte nella precedente pronuncia n. 9224/2018, ha negato nuovamente la possibilità di ricorrere ad un processo decisionale completamente automatizzato e ribadito la centralità dell’intervento umano nello svolgimento dell’attività amministrativa, potendo lo strumento informatico solo supportarne l’operato ma non sostituirsi ad esso. Alla base di tali argomenti, l’assunto secondo cui allo stato dell’arte un software non è in grado di analizzare e valutare la complessità umana, non misurabile tramite standard, né, per lo stesso motivo, presenta sufficiente capacità di gestione dell’imprevisto e dell’incertezza. Per tali ragioni, ad oggi, sarebbe difficile immaginare la sostituzione tout court nel procedimento amministrativo del funzionario pubblico con un algoritmo, potendo, invece, ben aversi automazione limitatamente ad alcune fasi dello stesso. Di recente, il Consiglio di Stato ha affrontato nuovamente il tema con la sentenza n. 8472/2019, per ribadire la necessità di «sfruttare le rilevanti potenzialità della cd. rivoluzione digitale». In tale prospettiva, l’algoritmo è qualificabile come «strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo[7]», da cui discende la generale ammissibilità del suo utilizzo come processo decisionale automatizzato in grado di assicurare “efficienza e neutralità” nello svolgimento dell’attività amministrativa, a condizione di garantire la piena conoscibilità dei criteri tecnici elaborati, svolgendo, ove occorra, «la necessaria verifica di logicità e legittimità» sulle relative operazioni affidate all’algoritmo.

Pur sottolineando la difficoltà di ottenere la necessaria trasparenza di modelli predittivi che basano la valutazione delle scelte decisionali sulla sistematica raccolta standardizzata dei dati selezionati per la formulazione dei relativi giudizi, il Consiglio di Stato ritiene che «non vi sono ragioni di principio per limitare l’utilizzo dell’algoritmo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse», così estendendo in via generalizzata l’utilizzabilità dei processi automatizzati nei procedimenti amministrativi rispetto a quanto affermato nella sentenza 2270/2019, ove il ricorso agli strumenti informatici di automazione veniva specificamente confinato soltanto in relazione alla cd. attività vincolata. La richiamata sentenza del Consiglio di Stato n. 2270/2019 riveste una notevole importanza pratico-applicativa, laddove chiarisce una questione di portata generale relativa al valore giuridico che assume la regola tecnica che governa ciascun algoritmo e, conseguentemente, alle disfunzioni che potrebbero derivare dall’introduzione di modelli decisionali automatizzati nell’azione amministrativa.

L’automazione garantisce l’affermazione del principio costituzionale di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, con benefici non soltanto sul piano del minor dispendio di mezzi e risorse e dell’accelerazione dell’iter automatizzato, ma anche su quello della maggior garanzia di imparzialità della decisione automatizzata. In ogni caso, nell’introdurre l’algoritmo nell’ambito delle procedure amministrative va tenuta in debita considerazione la sua non immediata comprensione da parte di soggetti non esperti. Ciò richiederà la previsione dei necessari correttivi, di metodo e di sistema, onde scongiurare che venga compromessa la comprensione delle scelte amministrative da parte dei comuni cittadini destinatari delle medesime. Innegabilmente l’utilizzo di un algoritmo[8], con la preelaborazione di una sequenza ordinata di operazioni di calcolo in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande, è particolarmente utile in un’ottica di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Il procedimento digitale comporta infatti una «notevole riduzione della tempistica procedimentale per operazioni meramente ripetitive e prive di discrezionalità, l’esclusione di interferenze dovute a negligenza (o peggio dolo) del funzionario (essere umano) e la conseguente maggior garanzia di imparzialità della decisione automatizzata».

Ma l’utilizzo di tali sistemi non priva l’autorità amministrativa della paternità dei provvedimenti seppur resi, grazie all’algoritmo, in modo automatizzato. Anzi, la stessa “regola tecnica” contenuta nell’algoritmo è espressione della volontà dell’autorità amministrativa[9], e ad essa è attribuibile[10]. Quindi l’algoritmo resta assoggettato alle medesime garanzie che l’attività amministrativa deve assicurare, tra cui in primo luogo la conoscibilità della regola tecnica in tutti i suoi aspetti, «dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti». Tanto al fine di consentire la sindacabilità dei criteri di funzionamento del procedimento digitale, ovvero la verifica della loro conformità rispetto alle finalità stabilite dalla legge o determinate dalla stessa amministrazione con l’adozione della regola algoritmica. Inoltre, la costruzione dell’algoritmo richiede la fusione di categorie concettuali appartenenti a diversi settori della conoscenza, principalmente del diritto e dell’informatica (si parla in proposito di una «caratterizzazione multidisciplinare» dell’algoritmo stesso). Ne deriva, «la necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile».

Si fa strada, dunque, una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che si pone oltre la mera conoscibilità, proiettandosi verso una effettiva comprensibilità. Trasparenza che assolve al compito di garantire che il cittadino possa conoscere le modalità automatizzate con le quali è stata in concreto assunta una decisione che si ripercuote sulla sua sfera giuridica. E, in tale prospettiva, di far valere il proprio diritto di difesa azionando la piena cognizione del giudice amministrativo, onde «sindacare come il potere sia stato concretamente esercitato». Quasi a voler riaffermare il primato dell’uomo sulla macchina, i Giudici di Palazzo Spada evidenziano la necessità che sia il giudice a «dover svolgere, per la prima volta sul piano “umano”, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica», nell’esercizio di quel sindacato giurisdizionale al quale non può sfuggire la decisione robotizzata. In generale, si può affermare che la pronuncia del Consiglio di Stato ha ribadito i principi base della pubblica amministrazione e li ha adeguati alla sua versione digitale: l’algoritmo è un atto amministrativo informatico ed in quanto tale per poter rispettare il principio di buon andamento e di economicità deve essere conoscibile e sindacabile.

Gli indirizzi giurisprudenziali brevemente passati in rassegna suggeriscono l’opportunità di implementazione di utilizzo di software che aiutino i pubblici funzionari a seguire le corrette procedure, tracciando i percorsi e suggerendo soluzioni operative e motivazionali. Programmi finalizzati a rendere più facilmente attuabili le vigenti procedure amministrative e a semplificare l’azione del pubblico funzionario, con conseguente riduzione del margine di errore. Non verrà a determinarsi – almeno non in questa prima fase – la sostituzione del pubblico funzionario e il momento decisionale prettamente umano con sistemi automatizzati, ma l’affiancamento ai medesimi di strumento di supporto ed assistenza, grazie ai quali poter evitare, o ridurre drasticamente, criticità, errori e condotte illegittime. Progressivamente, si dovrebbe giungere a software sempre più avanzati in grado di delineare procedure standardizzate da cui non sia possibile uscire se non forzando il sistema.

Tale impianto dovrebbe poi avere dirette ripercussioni sotto il profilo della responsabilità contabile ed amministrativa del pubblico funzionario. In tal senso, l’adozione di un procedimento amministrativo “assistito” – nei termini sopra descritto – determinerebbe una responsabilità “affievolita” del pubblico funzionario sotto il profilo dell’elemento soggettivo, escludendo la punibilità se non per dolo o colpa grave. E, in ipotesi, a tale responsabilità potrà affiancarsi quella del produttore del software, ad esempio per cattivo funzionamento del programma.

Si tratta indubbiamente di problematiche inedite che investono anche valutazioni sulla bontà ed efficacia del software e di conseguenza sulla certificazione del prodotto utilizzato. Così come possono delinearsi anche profili legati alla configurazione del produttore del software utilizzato dalla PA. quale ausiliario della stessa, con conseguente possibile vaglio da parte della Corte dei Conti.

In via di prima approssimazione ed in assenza di un intervento normativo sul punto, per il pubblico funzionario si dovrà ancora ragionare con i vecchi canoni, fermo restando che l’utilizzo di strumenti innovativi dovrà essere considerati almeno sotto due distinti profili. In primo luogo, quello della riduzione del margine d’errore. È di tutta evidenza che l’utilizzo di software intelligenti sarà di per sé foriero di un procedimento amministrativo più efficiente, efficace e trasparente secondo i dettami della nostra Carta Costituzionale. In secondo luogo, quello relativo all’elemento soggettivo in eventuali giudizi successivi in tema di responsabilità contabile ed erariale, vale a dire la buona fede nell’effettuazione delle scelte e, quindi, quantomeno l’esclusione della colpa grave per il solo fatto di aver seguito un iter guidato da programmi intelligenti.

Di fronte allo scenario appena descritto desta preoccupazione il ritardo del Legislatore nel recepire, dal punto di vista normativo, le novità della rivoluzione digitale, le cui criticità operative sono ulteriormente aggravate da un diffuso deficit di competenze specialistiche qualificate, che l’implementazione di procedure trasversali e multidisciplinari presuppone per l’efficiente svolgimento dei relativi processi, in un contesto in cui sempre più il tradizionale sapere giuridico sarà destinato a contaminarsi con skills tecniche e informatiche.

La domanda che si pone a giuristi ed operatori del diritto è dunque la seguente: la PA italiana è davvero pronta ad affrontare le imminenti sfide del cambiamento attuale, sfruttando i benefici offerti dalle tecnologie?

[1] Ulteriori impliciti riferimenti possono essere desunti anche dalla legge 07 agosto 2015, n. 124/2015, recante “Delega al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”. Inoltre, poiché l’adozione di una decisione basata su un procedimento algoritmico automatizzato può incidere sul trattamento dei dati personali, trovano altresì applicazione le specifiche garanzie prescritte dal Regolamento UE 2016/679, con particolare riferimento agli artt. 4, par. 4 e 22 del GDPR, in stretta connessione con i Considerando 71 e 72, al fine di salvaguardare il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali.

[2] Dal 2015 ad oggi diversi Tribunali amministrativi hanno esaminato sistemi informatici adottati dalla pubblica amministrazione con l’obiettivo di individuarne una corretta qualificazione. Il diverso impiego di questi strumenti ha dato vita a due differenti tipi di atto informato: uno a “forma elettronica” ed un altro ad “elaborazione elettronica”.

Nell’atto a forma elettronica il procedimento amministrativo si svolge tradizionalmente ed il software viene impiegato solamente per la sua redazione. In altre parole, lo strumento informatico, generalmente un programma di editing, si occupa solamente della traduzione in formato digitale della decisione adottata mediante un procedimento amministrativo ordinario. Il secondo tipo di atto, invece, affida l’elaborazione della decisione amministrativa direttamente allo strumento informatico. Il procedimento viene gestito interamente dal software, che, attraverso uno schema logico di ragionamento memorizzato, elabora gli input trasmessi e produce i risultati. La decisione ottenuta assume direttamente la natura di provvedimento e si pone a conclusione del procedimento amministrativo.

L’intervento umano, così, diventa assolutamente superfluo, tanto da considerare le esigenze di economicità dell’attività amministrazione completamente soddisfatte. Nonostante la precisione, in alcuni casi perfezione, raggiungibile dal software, secondo un orientamento giurisprudenziale, maggiormente diffuso in passato, le procedure informatiche non potevano “mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere”.

 Se il primo tipo veniva automaticamente considerato un atto amministrativo in senso stretto, lo stesso non poteva dirsi per quello ad elaborazione elettronica. Secondo questa giurisprudenza, alle procedure informatiche poteva essere riconosciuto solamente un ruolo strumentale, poiché la modalità di assunzione della volontà amministrativa impediva completamente l’attribuzione del valore di atto amministrativo. Presupposto di base di questa conclusione era la necessaria valutazione svolta da un funzionario umano. Non solo.

A sostegno di questa tesi, si riteneva che il software fosse in contrasto con alcuni principi fondamentali del procedimento amministrativo. Tra le più importanti criticità emergeva l’incompatibilità con la discrezionalità amministrativa, le difficoltà di conoscibilità del meccanismo, quelle relative al principio di trasparenza e al diritto di accesso. Secondo questa tesi, il linguaggio tecnico di programmazione posto alla base del software risultava incomprensibile a chiunque intendesse conoscerlo e, in secondo luogo, l’impiego di un software prodotto da terzi, ovvero da un privato, faceva sì che lo stesso venisse coinvolto nel procedimento amministrativo.

Di segno totalmente opposto quella giurisprudenza favorevole all’assimilazione del software all’atto amministrativo informatico. Essa si basava sull’utilità delle procedure automatizzate, sui vantaggi derivanti in termini di riduzione delle tempistiche e sulle garanzie di imparzialità. Il fondamento giuridico di tale tesi era ed è rinvenibile nell’art. 22 lett. d) della legge 241/1990, il quale riconosce “cittadinanza amministrativa” all’atto ad elaborazione elettronica ricorrendo ad una definizione più ampia del documento amministrativo. Per la citata disposizione è un atto amministrativo “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuta dalla pubblica amministrazione, concernente l’attività di interesse pubblico”. Di conseguenza, l’algoritmo, quale sequenza di operazioni, può sostituire l’ordinario procedimento amministrativo

[3] Con il termine algoritmi si tende a esprimere in termini matematicamente precisi il concetto di procedura generale, di metodo sistematico valido per la soluzione di una certa classe di problemi, o ancora come più semplicemente è stato definito in sentenza: “una sequenza ordinata di operazioni di calcolo”. Con processo decisionale automatizzato invece si intende la capacità di prendere decisioni impiegando mezzi tecnologici senza coinvolgimento umano.

[4] Questa affermazione rientra in una complessiva legittimazione del provvedimento amministrativo automatizzato basata sull’assunto sull’argomento secondo cui fare ricorso all’elaborazione elettronica ai fini della definizione del contenuto dell’atto, implica una decisione organizzativa relativa alla metodologia prescelta dall’amministrazione ai fini dell’articolazione e dello svolgimento del procedimento amministrativo alternativa rispetto a quella tradizionale. Il fatto che il software sia scritto mediante linguaggi di programmazione che generalmente incomprensibili sia al funzionario che ne fa uso sia al privato destinatario dell’atto non è avvertito come un problema. Si è in presenza, infatti, della legittima

[5] Ne consegue la diretta applicazione dei principi che regolano lo svolgimento di un’ordinaria attività amministrativa di cui all’art. 1 legge 241/1990, ivi compresi i canoni di ragionevolezza, pubblicità e trasparenza, che impongono alla PA, oltre al compito di svolgere una costante opera di perfezionamento dell’algoritmo mediante test e aggiornamenti periodici, di rendere inoltre pienamente conoscibile a tutti gli standard tecnici elaborati nella procedura tecnica automatizzata, affinché siano “chiare e sindacabili” in sede giurisdizionale le relative modalità di funzionamento sotto il profilo della legittimità e della correttezza della decisione.

[6] Ancora il TAR Lazio, nella sentenza n. 10693/2019 afferma che “gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche. Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di accesso e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice di percepire l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale. Invero il Collegio è del parere che le procedure informatiche, finanche ove pervengano al maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, acquisizione degli apporti collaborativi del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento, deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo”.

[7] Ciò in quanto “la regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall’uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest’ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva”.

[8] A. Masucci, Atto amministrativo informatico, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1997 Agg., vol. I, 221: «Nella scienza informatica il programma è descritto come l’insieme ordinato in sequenza di tutte le regole precise, inequivoche, analitiche, generali ed astratte formulate ex ante (cioè prima che si presentino concrete questioni da risolvere e senza riferimento specifico ad esse) la cui applicazione porta al risultato conseguito. Esso ha a fondamento un algoritmo ovvero l’enunciazione rigorosa delle operazioni logiche e di calcolo da eseguirsi su determinati dati, la cui successione conduce al raggiungimento di un determinato risultato».

[9] I. Martìn Delgato, La riforma dell’amministrazione digitale: Un’opportunità per ripensare la pubblica Amministrazione, in S. Civitarese Matteucci, L. Torchia (a cura di), A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana. La tecnificazione, vol. IV, Firenze, 2017, 146: «il fatto che la decisione sia stata adottata da un computer in maniera automatizzata, non implica che l’attività venga ad esso imputata, perché la paternità dell’atto ricadrà sull’organo amministrativo che possiede la potestà e esercita la competenza».

[10] Vi è però in dottrina chi non riconosce al software la natura giuridica di atto amministrativo, principalmente basandosi sulla circostanza che il linguaggio adoperato nella scrittura del software non è comprensibile da i non tecnici. Ciò comporta, da un lato, l’impossibilità per il cittadino di comprenderne il significato, dall’altro, la necessità che l’amministrazione, nel doversi affidare ad un tecnico per l’estensione del programma, esprima ex ante la decisione amministrativa da tradurre poi in stringhe informatiche. Altra parte della dottrina ascrive il software utilizzato per l’emanazione degli atti automatici alla categoria dell’atto amministrativo, come atto interno o come atto strumentale.

 

 

 

 

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