ART FUNDS: LO STATO DELL’ARTE

Lo Studio Piselli and Partners, nell’ambito del suo impegno per la valorizzazione dell’arte e della cultura, ha avviato un’ampia riflessione sui fondi di investimento in arte, che sono senz’altro uno strumento, innovativo, per coniugare le istanze del mercato con quelle culturali.

Il problema è sempre lo stesso: creare valore, e capire come l’arte produce rendimento. Ed il momento è quanto mai propizio per farlo: e non solo perché viviamo in una fase di rendimenti negativi.

Vediamo perché.

Per creare valore, in uno scenario in cui i collezionisti, quelli veri e consolidati, sono già sovraesposti dal punto di vista delle allocazioni finanziarie, non chiedono i servizi dei fondi, e hanno un rapporto con le loro opere che privilegia la dimensione affettiva, emozionale, che accoglie malvolentieri l’intermediazione di manager tradizionali (pur facendo attenzione alla gestione finanziaria delle attività di acquisto e di vendita), gli art funds dovrebbero avere un altro ruolo: quello di aprire il mercato verso persone e istituzioni che non sono ancora immerse nell’arte. Un lavoro quindi simmetrico a quello svolto dai galleristi che si dedicano alle sperimentazioni e al lancio di nuovi artisti: i fondi dovrebbero cioè lavorare su artisti consolidati, con intento finanziario, per attrarre nuovi potenziali investitori che altrimenti non si affaccerebbero mai sul mercato dell’arte.

I fondi di investimento in arte, in altre parole, dovrebbero essere, a differenza di quanto è accaduto nel mercato finanziario, una «innovazione dolce», che supporta galleristi o dealer, creando per loro nuova domanda.

Quello che preme far emergere in questo contributo è come il quadro normativo per gli art funds, che sono fenomeno tutt’altro che recente (http://fchub.it/articoli-fchub/anche-per-soldi-non-solo-per-passione) – all’indomani del recente, completo, recepimento della Direttiva AIFMD, c.d. Direttiva alternative (Direttiva 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2011) sui gestori di fondi alternativi, anche nel nostro ordinamento – sia sostanzialmente maturo: quindi – ed è questa la ragione per cui si parlava di momento propizio – , se non ora, quando?

Il recepimento dell’AIFMD in Italia è infatti iniziato (con qualche ritardo rispetto alla scadenza prevista del 22 luglio 2013), con il Decreto legislativo 4 marzo 2014 n. 44 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 70 del 25 marzo 2014, ed entrato in vigore lo scorso 9 aprile 2014), che ha apportato alcune modifiche al T.U.F.; è proseguito con l’emanazione del Decreto 5 marzo 2015, n. 30 (attuativo dell’art. 39 del novellato TUF) del Ministero dell’economia e delle finanze; e allo stato tale completo recepimento si è finalmente concluso grazie al lavoro congiunto delle Autorità di Vigilanza: in particolare, la Banca d’Italia ha emanato il provvedimento del 19 gennaio 2015, recante il nuovo Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, che abroga e sostituisce il precedente Provvedimento della Banca d’Italia dell’8 maggio 2012; mentre Banca d’Italia e Consob hanno emanato il provvedimento congiunto, sempre del 19 gennaio 2015, di modifica del Regolamento congiunto in materia di organizzazione e procedure degli intermediari del 29 ottobre 2007

Il percorso compiuto della legislazione sui fondi è quindi oramai chiaro e al suo interno si possono delineare due direzioni: la prima, già tracciata col T.U.F., ed ancora più marcatamente segnata dalla Direttiva AIFMD-alternative che dà ampio spazio ai fondi atipici, è quello della “detipizzazione” della materia (là dove nel sistema precedente al T.U.F., era necessario un nuovo intervento legislativo per l’introduzione di ogni tipo di fondo comune di investimento, e addirittura per ogni modifica delle sue caratteristiche); la seconda direzione è quella definitivamente presa già col Decreto Eurosim del 1996, attraverso cui si è fatta la scelta di un modello di mercato di tipo privatistico, pur se sottoposto alla vigilanza dell’autorità pubblica, il che se è possibile si è andato ora ancor più consolidando, soprattutto se guardiamo nell’àmbito dei fondi alternativi, dove è indubbio che l’autonomia privata gioca un ruolo essenziale, mentre il ruolo del controllo dell’autorità pubblica si affievolisce.

In questo processo che abbiamo chiamato di “detipizzazione” del sistema, si è andato però delineando una sorta di “archetipo” del fondo alternativo, che, come per l’impianto regolamentare, pur non essendo stato pensato appositamente per i fondi di arte – e del resto ci saremmo stupiti del contrario, considerando la prima delle direzioni poc’anzi evidenziate – , proprio a tali fondi può essere agevolmente sovrapposto.

L’archetipo è quello del FIA italiano di tipo “chiuso” – in quanto facilmente si supera la soglia del 20%  di investimenti in beni o attività con un minor grado di liquidità, come specificato nell’art. 4 del recente Decreto ministeriale 5 marzo 2015 n. 30, attuativo dell’art. 39 del novellato T.U.F. – , meglio ancora se riservato, in quanto in questo caso è possibile la costituzione anche mediante apporto (di opere, nel nostro caso); non è necessaria l’autorizzazione della Banca d’Italia; si può costruire in maniera mirata il  Regolamento del fondo (rispettandone un contenuto minimo stabilito dalla normativa): fondo che può avere una durata massima di 50 anni, decisamente molto funzionale ad investimenti a lungo termine, come quelli di arte, soprattutto quando la scelta sia quella di compierli attraverso un fondo di investimento.

Il che non esclude ovviamente la possibilità di configurare un FIA italiano chiuso di tipo non riservato.

Oramai poi con la Direttiva AIFMD, è previsto come la SGR che gestisce un fondo alternativo si debba dotare di un documento di policy con una mappatura dei conflitti di interesse (con un meccanismo che è quindi simil-UCITS, pur trattandosi di fondi non armonizzati); mentre anche se la medesima Direttiva prevede la presenza solo facoltativa dei c.d. esperti indipendenti (là dove la normativa italiana li aveva già previsti come obbligatori perlomeno nei fondi immobiliari, con i quali i fondi di arte hanno indubbie analogie), è indubbio come la presenza di tali esperti sia fisiologica in un fondo di arte.

Non a caso poi il già citato Decreto ministeriale 5 marzo 2015, n. 30, entrato in vigore il 3 aprile 2015, che sostituisce il precedente Decreto ministeriale 24 maggio 1999, n. 228, – completando così l’iter di recepimento della Direttiva Alternative, avviato con le modifiche al T.U.F. apportate dal Decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 44 e proseguite col Provvedimento 19 gennaio 2015 della Banca d’Italia (contenente il nuovo Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio) e col Provvedimento congiunto Banca d’Italia-Consob 19 gennaio 2015 (che modifica il Regolamento congiunto in materia di organizzazione e procedure degli intermediari del 19 ottobre 2007) – , rafforza i presidi e le cautele per i conflitti di interesse (di cui invece non si faceva menzione nel Decreto ministeriale del 1999).

Il che è totalmente in linea col modello organizzativo della SGR promosso e suggerito, anche attraverso protocolli di autonomia, ad esempio da Assogestioni: in cui si immagina un comitato investimenti, degli esperti indipendenti e un Cda con amministratori indipendenti.

Si ritiene infatti come la compresenza di soggetti diversi, tutti con ruoli indipendenti, e soprattutto di momenti diversi di confronto tra i medesimi, possa ben neutralizzare i conflitti di interessi.

Un problema quest’ultimo che non è nuovo – come non è nuova la questione degli amministratori indipendenti (che si era posta anche al momento della loro introduzione nelle Spa) –  , e che soprattutto non comporta che l’operazione non si faccia, ma semplicemente che venga gestito, attraverso i molteplici strumenti ora a disposizione: basti ricordare, oltre a quanto già sottolineato, anche l’art. 21 del T.U.F. e quanto previsto in materia anche dalla Direttiva 2004/39/CE, la c.d. MiFID.

A questo punto, quindi, sommessamente si ritiene come il passo successivo da compiere per una maggiore diffusione degli art funds, sia quello di studiare un modello di business sostenibile, in cui l’arte entri nel portafoglio come asset class alternativo.

La domanda di fondi di arte, infatti, esiste già, soprattutto presso la clientela più abbiente; e gli indici di settore ci dicono come il rendimento dell’arte sia paragonabile a quello dell’equity: anzi, che sia meno volatile di quest’ultimo.

Occorre a questo punto trovare un punto di equilibrio e di efficienza tra rendimento, rischio e orizzonte temporale, che si attagli a questo particolare asset, tenendo in considerazione i costi di intermediazione (che sono più alti della media) e la necessità di figure altamente specializzate (oltre che indipendenti).

Un orizzonte che – secondo alcuni esperti – si può muovere in direzioni diverse: quella della collezione molto diversificata, del venture capital dell’arte, del private equity dell’arte per la gestione di scuderie di artisti o per la valorizzazione di patrimoni culturali/assets abbandonati, superando così la logica dell’arte come manufatto, e analizzando meglio in che modo la medesima può produrre rendimento. E applicando dove servono anche i modelli già noti del real estate, soprattutto quando occorre ragionare in termini di location, qualità del bene, promozione dell’asset.

Gli emittenti/Sgr stanno quindi ragionando su questi modelli: in ogni caso, solo un’attenta analisi delle motivazioni degli high net worth individuals negli acquisti e nell’investimento in arte, secondo gli analisti, potrebbe creare dei modelli vincenti di art funds: adatti, in altre parole, ad attrarre domanda verso questo tipo di prodotto.

Secondo il Deloitte Art and Finance report 2015, il mercato dei fondi di investimento di arte rimane ancora una nicchia del settore arte e finanza: nonostante siano emersi alcuni modelli di successo, sembrerebbe essere ancora troppo presto per parlare, per questo comparto, di un mercato a pieno titolo.

L’investimento in arte a livello di industria globale si concentra, come è ovvio, in fondi d’arte che possano dimostrare un track record.

Il mercato globale dei fondi di investimento  in arte è stato stimato (prudenzialmente) in $ 1,26 nel primo semestre del 2014, con una tendenza quindi al ribasso rispetto ai $ 2.13bn del 2012, soprattutto però a causa di una correzione significativa dei fondi di investimento e dei fondi di arte in Cina. Nel 2014, si stima che 72 fondi d’arte fossero in attività nel mondo, e che ben 55 di questi erano in Cina.

Un Paese, quest’ultimo, in cui la fiducia nei fondi di arte, ma anche più in generale nell’investimento in arte, sembrerebbe contrarsi rapidamente, secondo Deloitte, con una stima di $ 169.000.000 di investimenti nel 2013, rispetto ai $ 529.000.000 del 2012: complici, ovviamente, i regolamenti governativi più severi per il mercato ombra-bancario cinese, che ha innescato, come effetto collaterale, proprio un calo dei fondi di investimento in arte.

Le conclusioni di Deloitte sembrerebbero non collimare perfettamente con la mappatura dei fondi di investimento in arte — fatta in collaborazione con l’Università Luiss di Roma — , che sembrerebbe piuttosto fotografare un mercato dei fondi di arte attivo a prescindere dalla Repubblica Popolare Cinese, forse quindi un po’ sopravvalutata dagli analisti.

Anche in tale contesto ovviamente i fondi con almeno tre o cinque anni di track record attraggono più facilmente investitori, soprattutto nella congiuntura attuale, mentre quelli che non hanno, o quasi, precedent di successo, faticano di più per attrarre l’attenzione: esemplare in tal senso è il caso di The Fine Art Fund Group — l’unico gestore di art funds che può vantare un track record convincente — , che raccoglie $250 milioni dei $417 totali, rappresentando circa l’80,3% dei c.d. AUM americani ed europeo.

Tirando le somme, grazie come si diceva alla collaborazione dell’Università Luiss di Roma, si può assumere come nel mondo – a prescindere dalle ultime novità legislative che aiuteranno da un lato a mettere ordine, dall’altro a far crescere il mercato dei fondi di are – siano già operativi all’incirca  35 fondi (sicuramente) censiti: di cui ben 8, non a caso, sono basati in Lussemburgo; 3 alle isole Cayman; 2 negli Stati Uniti; 2 a Tel-Aviv; 2 a New Dehli; per il resto, ne risultano poi uno in Polonia, uno in Russia, uno in Svizzera (con un altro, dello stesso gestore, che sta per partire), uno a Gibilterra, uno in Germania, uno a Guernsey (stato dipendente dalla Corona Britannica), un altro in Scozia, uno a Singapore, poi ancora uno in Brasile, uno a Malta, uno in Lichtenstein, uno a San Marino,  e infine uno negli Emirati Arabi.  Infine, c’è il caso dell’Italia, col fondo Pinacotheca, che non è di fatto mai partito; e di Gestiarte (che chiuse prima del tempo, con un rendimento di nemmeno il 5%). In tempi molto recenti, ad inizio ottobre 2015, si è poi aggiunto l’Athena Art Finance, lanciato a New York con una dotazione di 280 milioni di dollari, la durata di 7 anni, e la missione di elargire prestiti utilizzando a garanzie esclusivamente opere d’arte.

Va da sé che tutti gli altri fondi di arte — se vogliamo dar fede al dato per cui nel mondo ve ne siano circa 70 — , quelli che non si è riusciti, non a caso, a censire, siano cinesi: ma il loro numero è sicuramemte inferiore a quello prospettato dalla ricerca di Deloitte. Dati alla mano infatti, se circa 35 fondi censiti sono europei, americani e di altri Paesi diversi dalla Cina, allora quest’ultima non conta a sua volta più di altri 35 fondi.

Insomma, non vi sono più alibi, neanche per il mercato italiano, in cui siamo certi non mancheranno delle novità: gli art funds sembrano davvero ai nastri di partenza. Chi vivrà, vedrà.

Intanto, lo Studio Piselli and Partners sta prendendo contatti con analisti e gestori per mettere a punto modelli di business appropriati, supportati dalle giuste strategie giuridiche e fiscali,  per stimolare e sostenere il mercato degli art funds.

 

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