INTERVENTO. SUBITO LA COMMISSIONE PER IL DÉBAT PUBLIC: DA EVITARE L’EFFETTO-NIMBY
Articolo pubblicato su Edilizia e Territorio del 10/07/2018
Il regolamento sul dibattito pubblico per le opere pubbliche
È nel perché, per quali opere e di quali dimensioni e valore, attivare la procedura del dibattito pubblico che si incentra e si sostanzia la novità del codice appalti.
Entrerà in vigore tra poco più di un mese il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n 76 del 10 maggio 2018 che si occupa del «Regolamento recante modalità di svolgimento, tipologie e soglie dimensionali delle opere sottoposte a dibattito pubblico» .Il decreto, come previsto dall’articolo 22 comma 2 del decreto legislativo 18 aprile 2016 n 50 come modificato ed integrato dal decreto legislativo 19 aprile 2017 n 56, fissa i criteri per l’individuazione delle opere di cui al comma 1 di tale articolo distinte per tipologia e soglie dimensionali per le quali è obbligatorio il ricorso alla procedura di dibattito pubblico, e sono altresì definite le modalità di svolgimento e il termine di conclusione della medesima procedura.
Inoltre, nel decreto sono stabilite le modalità di monitoraggio sull’applicazione della struttura del «dibattito pubblico» e si disciplina il funzionamento della Commissione nazionale istituita, senza oneri per l’erario, presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con il compito di raccogliere e pubblicare informazioni sui dibattiti pubblici in corso di svolgimento o conclusi e di proporre raccomandazioni per lo svolgimento del dibattito pubblico sulla base della esperienza maturata. Ma la novità legislativa, che era stata già valutata e discussa con pareri largamente positivi, sulla scia della positiva esperienza maturata in Francia dal “Debat public”, fin dal Dlgs 50 trova la sua concreta applicazione nel Decreto Presidenziale n 76, indicando nell’allegato 1, in maniera chiara ed inequivoca , la tipologia e le soglie dimensionali delle opere pubbliche per le quali sarà obbligatorio il ricorso alle procedure di dibattito pubblico. Questo, ovviamente, serve a soppesare il reale interesse pubblico all’opera e al suo sottoporla, per dimensione, alla importante e politicamente sensibile procedura. Già nella valutazione espressa dal Consiglio di Stato, riunito in commissione speciale, nell’adunanza del 7 febbraio 2018 , proprio su questo tema si era appuntata una delle due principali critiche mosse al Dpcm, l’altra era nella direzione di «potenziare l’attività di monitoraggio della Commissione nazionale per il dibattito pubblico, istituita dal Codice Appalti, e regolata dal comma 6 del decreto» .
Ma a ben vedere è nel perché , per quali opere e di quali dimensioni e valore, attivare la procedura del dibattito pubblico che si incentra e si sostanzia il Dpcm e soprattutto, il fondamentale principio generale di trasparenza degli atti amministrativi, che, negli anni, il legislatore italiano ha voluto sempre più giustamente rafforzare: dalla 241 del 1990, al Dlgs n. 33 del 2013 e infine al Foia introdotto dalle modifiche intervenute con il Dlgs. 97 del 2016. Tutto ciò deriva sia dalla doverosità di comunicare della pubblica amministrazione e quindi dalla derivante legittimità «latu sensu» degli stessi atti amministrativi, ma anche e soprattutto in funzione Anticorruzione, essendo la trasparenza l’unica, vera ed indispensabile alternativa di prevenzione, per evitare la possibile applicazione delle molte fattispecie, penalmente rilevanti, che con l’attuale legislazione, intervengono, con più o meno fondamento ed efficacia, solo a procedure in corso o ad atti emanati.
È per questo che le scelte attuate dal legislatore nell’allegato 1 devono contemperare le esigenze indifferibili di evitare rischio di reati e corruzione con la più ampia trasparenza di tutte le fasi di una complessa e impegnativa procedura di dimensione ed impatto rilevante per la comunità locale e anche per il paese intero, ma altresì devono evitare il cosiddetto «effetto Nimby» derivante dalla ormai “consolidata” esperienza di trovare sempre un signor No, che nel suo “particulare” locale impedisce un opera di interesse generale, trovando sponda sia politica, sia amministrativa .
Mi riferisco, in quest’ultimo caso, alle difficoltà di applicare le attuali norme sugli appalti da parte di funzionari e dirigenti pubblici preoccupati delle possibili conseguenze, penali o di eventuali danni erariali a loro imputabili, in un clima difficile per l’iter procedimentale dell’opera a loro affidata, dovendo tener conto anche degli stringenti criteri di spending review, derivanti dalla scarsità di risorse pubbliche disponibili.
Per questo, i criteri individuati dal decreto debbono trovare nella Commissione, da nominare rapidamente, valutazione in fattispecie concrete, anche in opere di dimensioni minori, magari su base volontaria su richiesta delle stazioni appaltanti, per arrivare nei 2 anni previsti al quarto comma dell’articolo 10, nelle Disposizioni transitorie e finali a far proporre dalla Commissione stessa al Ministro delle Infrastrutture e Trasporti «Disposizioni integrative e correttive del decreto da adottarsi con le procedure previste dall’articolo 22 comma 2 del codice appalti».