BENI CULTURALI: PRIMA E DOPO LA “CURA”
Come anticipato in questa sede, il 2 agosto 2017 è stato finalmente approvato l’Atto Senato n. 2085-b, contenente il c.d. DDl. Concorrenza 2017, e di seguito pubblicato nella G.U. n. 189 del 14 agosto 2017, come Legge n. 124 del 4 agosto 2017, in vigore dal 29 agosto 2017. La legge contiene norme – in particolare gli artt. 176 e 177 – che vanno a modificare (con l’intento di semplificarlo) il Codice dei beni culturali e del paesaggio, soprattutto negli articoli da 10 a 12; negli articoli 63, 68, 74, 69, e nell’Allegato A, quindi in altre parole nella parte che riguarda la circolazione internazionale dei beni che interessano il mercato dell’antiquariato. Finora la normativa era fortemente sbilanciata a favore della tutela nazionale dei beni culturali rispetto alla circolazione internazionale dei beni stessi.
Facciamo quindi un passo indietro, per capire innanzitutto come funzionava il sistema prima della “cura”.
Per l’uscita definitiva dal nostro Paese, e la circolazione in àmbito comunitario, di alcune categorie di cose, senza per questo produrre un danno all’integrità del patrimonio culturale nazionale italiano, era ed è richiesta un’autorizzazione, l’attestato di libera circolazione, concessa dal competente ufficio esportazione.
Il rilascio dell’attestato non permette però, da solo, l’uscita della cosa dall’Unione Europea: caso per il quale è richiesta anche la licenza di esportazione.
Le categorie di ‘cose’ (così si esprime, dopo le modifiche datate 2008, il Codice dei beni culturali e del paesaggio) per le quali deve essere richiesto l’attestato di libera circolazione sono solo quelle espressamente individuate dalla norma: si tratta soprattutto di opere, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale, di autore non più vivente e la cui esecuzione doveva risalire ad oltre cinquanta anni. Le opere di arte contemporanea sono viceversa liberamente esportabili, non essendo più nemmeno richiesto ora il nulla osta, ma è a carico del proprietario (o chi per lui) fornire al competente ufficio di esportazione la prova che l’opera o sia di autore vivente o non risalga ad oltre cinquant’anni.
Come fare, all’atto pratico, per ottenere il rilascio dell’attestato di libera circolazione?
Chi è interessato all’uscita definitiva dall’Italia di una o più delle cose che abbiamo elencato deve farne denuncia e portare le cose in questione al competente ufficio esportazione. Alcuni interpreti ritengono, sollevando non poche perplessità, che, poiché la norma non regola esplicitamente la competenza per territorio dell’ufficio esportazione, né vi sono altre norme che lo facciano, ciascuno può portare gli oggetti all’ufficio che preferisce, che da quel momento diventerebbe il solo competente.
Il procedimento innescato dalla presentazione della cosa, quando possibile in senso ‘fisico’, per permetterne l’esame (altrimenti deciderà l’ufficio esportazione come ‘bloccarne’ la disponibilità) e dalla contestuale denuncia è tutt’altro che celere.
Entro tre giorni dalla denuncia, l’ufficio esportazione, dopo aver esaminato le cose, ne dà notizia documentata ad alcuni uffici ministeriali (Direzione generale competente, Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, cui si aggiunge, se il bene è di proprietà di un ente sottoposto alla vigilanza regionale, la Regione competente, il cui eventuale parere negativo all’esportazione è vincolante). Tali uffici a loro volta devono svolgere gli opportuni accertamenti e comunicare entro dieci giorni all’ufficio esportazione ogni elemento utile raccolto.
Entro quaranta giorni dalla presentazione della cosa, la procedura, nella maggior parte dei casi, deve essere conclusa, e l’ufficio esportazione deve non solo emanare il provvedimento con cui rilascia o nega l’attestato, ma altresì darne comunicazione all’interessato. L’osservanza di tale termine, visto che non è richiesta la notifica del provvedimento, ma la semplice comunicazione, può essere documentata anche attraverso il timbro, con datario, dell’ufficio di esportazione.
Ma se nei medesimi quaranta giorni, l’ufficio esportazione propone al Ministero l’acquisto della cosa (ad un prezzo corrispondente al valore venale denunciato), il termine per il rilascio dell’attestato è prorogato di ulteriori sessanta giorni (in tutto, quindi, cento giorni dalla presentazione). Il proprietario della cosa potrà comunque sempre evitare l’acquisto coattivo da parte dello Stato rinunziando all’esportazione: acquisto coattivo che, va detto, non implica di per sé l’accertamento di una specifica qualità della cosa.
Contro il diniego dell’attestato di libera circolazione, è ammesso sia il ricorso amministrativo direttamente al Ministero per i beni e le attività culturali, per motivi di legittimità e di merito, sia il ricorso giurisdizionale, davanti al giudice amministrativo. Il ricorso amministrativo, che è quello espressamente regolato nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, deve essere proposto entro trenta giorni dalla data in cui colui che ha chiesto l’attestato ha avuto conoscenza del provvedimento, e deve essere deciso entro novanta giorni dalla sua proposizione (durante i quali le cose continuano a rimanere ‘bloccate’ presso l’ufficio esportazione, e ad essere sottoposte ad una serie di misure cautelari). In caso di accoglimento del ricorso, l’attestato deve essere rilasciato dall’ufficio esportazione competente nei successivi venti giorni.
Contro l’avvenuto rilascio dell’attestato si può proporre invece solo il ricorso davanti al giudice amministrativo, nel diverso termine di sessanta giorni.
Le conseguenze del diniego dell’attestato sono presto dette: impossibilità di uscita dell’opera dal nostro Paese, sottoposizione della medesima a vincoli vari (ad es. gli interventi, come i restauri, dovranno essere autorizzati dal Soprintendente; gli spostamenti dovranno essere denunciati al Soprintendente medesimo; e molto altro ancora, cui si aggiunge, nel caso l’opera sia ancora ‘cosa’ e non ‘bene’ culturale ai sensi del Codice, l’avvio, dal momento del diniego dell’attestato, del procedimento di dichiarazione dell’interesse culturale.
L’attestato rilasciato prima della “cura” aveva validità di tre anni (non prorogabili, se non in seguito ad una nuova richiesta). Dopo la scadenza di tale termine, e prima che un nuovo attestato sia eventualmente rilasciato, l’uscita del bene dall’Italia è comunque illegittima.
Le questioni poste da questa normativa non sono poche: alcuni esempi basteranno per far capire quanto sia complessa e problematica la materia. Ipotizziamo che una casa d’asta italiana debba decidere se inserire nel suo catalogo un Picasso, di attribuzione ancora dubbia: la prassi prevede che il quadro debba essere autenticato dalla Fondazione intitolata all’artista, che si trova a Parigi. È necessario richiedere un certificato di libera circolazione per portare il quadro nella Ville Lumière (quadro che, fra l’altro, potrebbe poi essere ritenuto falso dalla Fondazione)? Secondo il nostro ordinamento, sì. Anche se sembrerà un’assurdità l’attestato di libera circolazione, se non già rilasciato, dovrà essere chiesto per esser certi che non si tratti di un bene per il quale è vietata l’uscita definitiva! Non esistono infatti strumenti alternativi, e adatti all’esempio fatto: pur trattandosi di un’uscita non definitiva dal nostro Paese, il caso non rientra fra quelli di uscita temporanea, che non solo sono tassativi e esattamente individuati dal Codice (mostre, manifestazioni o esposizioni d’arte di alto interesse culturale, interventi conservativi da eseguirsi necessariamente all’estero; attuazione di accordi culturali), ma, e soprattutto, sono stati pensati solo per quei beni per cui è vietata l’uscita definitiva. Per questi ultimi, e solo per quest’ultimo, è previsto un diverso tipo di attestato: quello, per l’appunto, di circolazione temporanea.
A tutto questo si aggiunga poi che, in assenza di indirizzi di politica culturale di rango nazionale (e quindi di criteri, direttive, che siano uniformi in tutto il territorio italiano), la scelta di concedere o meno l’attestato di libera circolazione è lasciata alle singole Soprintendenze, ognuna delle quali si regolerà più o meno come crede (va be’, a dirla tutta le direttive c’erano: ma finora sono state quelle fornite da una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione del 1974!). Il rischio è sempre stato non solo l’arbitrio, ma anche una sorta di embargo culturale, in quanto i sovrintendenti potevano decidere di bloccare all’interno del Paese, come non di rado è avvenuto, cose che non hanno nessun collegamento con la nostra storia e cultura nazionale. Ed il quadro poteva farsi ancora più grottesco, accogliendo la tesi di chi sostiene che non vi è una competenza territoriale ben definita degli uffici di esportazione, autorizzando così (implicitamente) il ‘fuggi, fuggi’ verso quelli di più larghe vedute…
Infine, va sottolineato lo svantaggio competitivo in cui una legislazione del genere confina il mercato dell’arte italiano, non a caso avvertito come ‘minore’, là dove nella maggior parte dei paesi europei le ‘cose’, ma anche i ‘beni’ culturali, circolano con meno restrizioni e meno formalità.
A onor del vero, già dopo i ritocchi del 2008 al Codice dei beni culturali e del paesaggio, e per quanto qui interessa soprattutto al comma 4 dell’articolo 68 di tale Codice, il legislatore sembrava aver introdotto delle coordinate un po’ meno fumose, rispetto a quelle preesistenti, in base a cui decidere se rilasciare o meno l’attestato, il cui rifiuto sembrava voler essere davvero ristretto solo ai casi di ‘beni culturali’. Ma con una formulazione che lasciava ancora molti, forse troppi, margini di discrezionalità. Margini che sono stati in parte ben compensati dall’atteggiamento di maggiore equilibrio che si è negli ultimi anni registrato da parte dei funzionari al momento di concedete l’attestato di libera circolazione.
Cosa è cambiato con la recente “cura” subita dal Codice? Lo vedremo nella prossima puntata.