CAOS SUBAPPALTO: LA NUOVA COMPLESSA FISIONOMIA DELL’ISTITUTO DOPO LE RECENTI PRONUNCE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE
Una nuova censura da parte dei Giudici europei; per l’istituto del subappalto, dunque per operatori e Professionisti che si trovano a dover interpretare correttamente la relativa disciplina, aumentano le incertezze e i dubbi applicativi.
A soli due mesi di distanza dalla c.d. sentenza Vitali, del 26 settembre scorso (causa C-63/18), la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata nuovamente (sentenza Tedeschi, 27 novembre 2019, causa C-402/18) in tema di subappalto, censurando la disciplina contenuta nel codice del 2006, (art. 118, commi 2 e 4), anch’essa ritenuta non in linea con il diritto europeo in tema di appalti pubblici.
Con la prima delle pronunce richiamate è stato sancito che la direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi; con la successiva, oltre a ribadire il medesimo principio anche con riferimento alla previgente direttiva 2004/18/CE, la Corte UE ha aggiunto che essa osta altresì ad una normativa nazionale che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazione subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione[1].
La incompatibilità della disciplina italiana con la normativa eurounitaria in tema di subappalto era già evidenziata nella lettera di messa in mora inviata al nostro Paese dalla Commissione Europea lo scorso del 29 gennaio: in quella sede è stata sottolineata l’assenza nelle direttive comunitarie di disposizioni che consentano un limite obbligatorio all’importo dei contratti pubblici che può essere subappaltato. Al contrario, le direttive, secondo la Commissione, si basano sul principio secondo cui occorre favorire una maggiore partecipazione delle PMI agli appalti pubblici, e il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo può essere raggiunto.
Segnatamente, con nota n. 2273/2018 del 24 gennaio 2019, la Commissione Europea ha segnalato che diverse disposizioni contenute nel nuovo Codice degli appalti, tra cui quella concernente il contratto di subappalto, non appaiono conformi alla disciplina dettata dal legislatore comunitario. In particolare, la Commissione ha contestato l’art. 105 del D.lgs. n. 50/2016 nella parte in cui prevede un limite del 30%, in virtù del fatto che tale limitazione quantitativa risulta, di fatto, incompatibile con i principi che impongono di facilitare la partecipazione delle piccole e medie imprese, violando le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE. Censurato anche l’obbligo per gli operatori economici di indicare la terna dei subappaltatori, che andrebbe a porsi in evidente contrasto con il principio di proporzionalità di cui agli artt. 18 e 71 della Direttiva 2014/24/UE. La Commissione Europea sostiene che il divieto per i subappaltatori di fare a loro volta ricorso ad altri subappaltatori andrebbe non solo a ledere il principio di proporzionalità, ma anche quello di parità di trattamento, invocato dall’art. 71 della Direttiva 2014/24/UE, e ribadito dall’art. 88 della Direttiva 2014/25/UE e dall’ art. 42 della Direttiva 2014/23/UE.
Il Legislatore nazionale ha cercato di dare una prima risposta concreta alle criticità riscontrate dalla Commissione Europea con il d.l. n. 32/2019, c.d. Decreto Sblocca Cantieri, che ha modificato il limite generale del subappalto, aumentandolo dal 30% al 50% dell’importo contrattuale, ha eliminato la previsione relativa all’indicazione della terna obbligatoria dei subappaltatori in sede di offerta e, da ultimo, ha abolito il divieto di subappaltare l’appalto al soggetto che avesse partecipato alla procedura di gara.
Successivamente, la Legge n. 55/2019 (Gazzetta Ufficiale n. 140 del 17 giugno 2019) non ha convertito quanto stabilito dal Decreto, ma, nelle more della approvazione di una completa revisione del Codice dei contratti pubblici, ha sospeso fino al 31 dicembre 2020 la disciplina di cui all’art. 105 del D.lgs. n. 50/2016 comma 6, e 174 del D.lgs. n. 50/2016, concernenti l’obbligo di indicazione della terna dei subappaltatori. Nel contempo, ha introdotto, nell’art. 1, comma 18, delle disposizioni “provvisorie” e “transitorie” in materia di subappalto.
Secondo i Giudici europei “anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno criminoso, una restrizione come quella di cui trattasi nel procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo”, in quanto non residua alcuno spazio per una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore.
Nel dettaglio la Corte UE ha chiarito che nessuna disposizione della direttiva 2004/18/CE dovrebbe vietare di imporre o di applicare misure necessarie alla tutela dell’ordine, della moralità e della sicurezza pubblici, a condizione che dette misure siano conformi al trattato. In definitiva, la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretata nel senso che:
- essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi;
- essa osta a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
Di qui il rilevato contrasto con il diritto UE della normativa italiana, laddove essa limita il ricorso al subappalto in tutti i casi, e non solo nelle ipotesi in cui simile restrizione sia oggettivamente giustificata dalla natura delle prestazioni dedotte in contratto.
In sostanza, secondo i Giudici comunitari il divieto di superare il 30% esistente nell’ordinamento italiano costituisce un divieto “generale e astratto” che, quindi, si applica “indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori”. Inoltre esso “non lascia alcuno spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore”. Analogamente, le limitazioni al ricorso ai subappaltatori non possono avvenire “a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità” degli stessi” e senza menzione alcuna “del carattere essenziale degli incarichi”.
La Corte non nega l’esistenza di esigenze di tutela sottese alle regole di dettaglio in nazionali in materia di subappalto e, in particolare la fissazione di una soglia quantitativa, ma afferma come la logica di siffatte previsioni, di contrasto fenomeni illeciti, non possa “eccede[re] quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo”, come, diversamente è, quando detto limite opera indiscriminatamente per una generalità e pluralità di casi.
Con una motivazione analoga a quella contenuta nella precedente sentenza, la Corte di Giustizia ha affermato la non compatibilità con il diritto europeo degli appalti pubblici della disposizione di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006 che limita al 30% dell’importo complessivo del contratto, per i servizi e le forniture, e rispetto alla categoria prevalente, per i lavori, la parte delle prestazioni che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi (art. 118, comma 2).
Ciò in quanto, pur essendo riconosciuta alle amministrazioni aggiudicatrici la facoltà di limitare il ricorso ai subappaltatori dei quali non siano state in grado di verificare le capacità in sede di valutazione delle offerte, non risulta in linea con l’obiettivo di apertura del mercato perseguito dalle direttive europee del 2004 (e riproposto in quelle del 2014) una normativa, come quella italiana, che vieta in modo generale e astratto di subaffidare a terzi una parte dell’appalto che superi una determinata percentuale, indipendentemente dal settore economico interessato e senza che residui alcun margine di valutazione in capo alle stazioni appaltanti.
Secondo i giudici europei, anche a voler ammettere che la restrizione quantitativa prevista in materia di subappalto sia idonea a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici, essa non può comunque ritenersi proporzionata rispetto a tale obiettivo, non essendo consentito agli enti aggiudicatori di escluderne l’applicazione ove ritenuta non necessaria.
Inoltre, come anticipato, con la sentenza Tedeschi[2] la Corte UE ha contestato anche l’ulteriore limitazione imposta dal diritto italiano agli operatori economici, che non consente di ribassare i prezzi delle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto a quelli praticati dall’aggiudicatario (art. 118, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006).
Viene evidenziato come il suddetto limite costituisca non soltanto un “ostacolo normativo” all’esplicarsi pienamente della più ampia partecipazione (come è invece immediatamente percepibile quanto al limite quantitativo del 30%) ma sia, soprattutto, posto a diretta tutela del costo del lavoro e dei lavoratori. Sul punto, la Corte ha ritenuto che esso “eccede quanto necessario al fine di assicurare ai lavoratori impiegati, nel contesto di un subappalto, una tutela salariale”. Anche detto limite, ad avviso della Corte, “non lascia spazio ad una valutazione caso per caso da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dal momento che si applica indipendentemente da qualsiasi presa in considerazione della tutela sociale garantita dalle leggi”. (§65-66 CGUE C-402-18). Si tratta, anche in questo caso di un “limite generale e astratto” che si rivela “sproporzionato rispetto all’obbiettivo perseguito” potendosi ad esempio prevedere che “gli offerenti indichino, nella loro offerta, la quota parte dell’appalto e i lavori che essi hanno intenzione di subappaltare” che “vietare di sostituire subappaltatori” se non sia potuto “verificare previamente l’identità , la capacità e l’affidabilità dei nuovi subappaltatori proposti” o, ancora, in sede di verifica dell’offerta anormalmente bassa, verificare se il ribasso praticato sia tale da garantire la corretta esecuzione dell’appalto.
In sostanza, per la Corte è da salutare con favore la possibilità che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi che “egli negozia con in subappaltatori”. Infatti ciò “contribuisce ad una concorrenza rafforzata e quindi all’obiettivo perseguito dalle direttive”.
Tale restrizione quantitativa è, infatti, da considerarsi idonea a rendere meno allettante la facoltà (riconosciuta dal diritto europeo) di ricorrere al subappalto per l’esecuzione dei contratti, poiché “limita l’eventuale vantaggio concorrenziale in termini di costi che i lavoratori impiegati nel contesto di un subappalto presentano per le imprese che intendono avvalersi di detta possibilità”.
Anche in questo caso, ad essere contestata è la previsione di un limite generale e astratto che si impone in modo imperativo, indipendentemente da qualsiasi verifica della sua effettiva necessità e prescindendo dal settore economico di riferimento, per assicurare ai lavoratori del subappaltatore una tutela salariale minima, senza che siano tenuti in considerazione leggi, regolamenti e contratti collettivi vigenti in materia di condizioni di lavoro.
I due pronunciamenti si basano, a ben vedere, sula medesima ratio. Secondo i Giudici del Lussemburgo, infatti, se l’obiettivo della tutela dei lavoratori può giustificare talune limitazioni al ricorso al subappalto, la restrizione del 20% di cui all’art. 118, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006 eccede tale finalità, esistendo nel diritto nazionale altre misure meno severe già dirette a garantire la tutela sociale nel mercato del lavoro e a consentire alle amministrazioni aggiudicatrici di verificare le capacità e l’affidabilità dei subappaltatori prima dell’esecuzione delle prestazioni.
Né il limite previsto dalla normativa italiana non potrebbe giustificarsi neanche alla luce dell’esigenza di attuazione del principio di parità di trattamento, che potrebbe ritenersi sacrificato laddove la corresponsione di prezzi ridotti ai subappaltatori, senza variazioni nella remunerazione del contraente principale indicata nell’offerta, comportasse una riduzione dei costi per l’operatore economico e il conseguente aumento del profitto ricavato dall’appalto.
La mera circostanza che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi negoziati con i subappaltatori non è, infatti, di per sé idonea a determinare la violazione dei principi vigenti nel settore dei contratti pubblici, contribuendo piuttosto al raggiungimento di una concorrenza rafforzata.
Dunque, la disciplina vigente in tema di subappalto, segnatamente l’art. 105 del D.lgs. n. 50/2016, anche nella versione modificata ad opera del c.d. Decreto Sblocca Cantieri, convertito nella citata Legge n. 55/2019, risulta non conforme al disposto delle Direttive UE, le quali essa ostano a una normativa nazionale che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi e che limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
Sul tema si segnalano due recenti interventi dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, secondo cui è opportuno che sia demandata al Legislatore – e non alle stazioni appaltanti – la risoluzione della questione, mediante una modifica del testo dell’art. 105 del Codice.
In particolare, con Comunicato del Presidente dell’ANAC del 23 ottobre 2019 sono state fornite delle prime indicazioni per l’aggiornamento del Bando-tipo n. 1 a seguito delle modifiche al Codice apportate dalla legge di conversione dello “sblocca-cantieri”: “l’art. 1, comma 18, l. 55/2019 ha previsto che fino al 31 dicembre 2020 la quota subappaltabile non può superare il 40% dell’importo complessivo del contratto. Sul limite della quota subappaltabile è intervenuta di recente la sentenza della Corte di giustizia, sez. V, 26 settembre 2019, causa C-63/18”. Si precisa inoltre che “Nelle more delle modifiche al Bando-tipo n. 1/2017, al fine di orientare l’attività interpretativa delle stazioni appaltanti ed evitare prassi applicative discordanti e/o erronee delle nuove disposizioni codicistiche, si segnalano le clausole del citato bando, che devono reputarsi sospese o non conformi alle disposizioni sopra richiamate. Più precisamente: (…) il paragrafo 9 “Subappalto”, (pag. 22), non è conforme all’art. 1, comma 18, l. 55/2019 in quanto fino al 31 dicembre 2020 il limite massimo della quota subappaltabile è pari al 40% dell’importo complessivo del contratto. Devono, inoltre, ritenersi automaticamente sospese le clausole in cui si fa riferimento alla terna dei subappaltatori e ai controlli in sede di gara sui subappaltatori, stante la previsione dell’art. 1, comma 18, l. 55/2019”.
Nello stesso senso, il più recente Atto di Segnalazione dell’ANAC del 13 novembre 2019, col quale l’Autorità ha inteso “formulare alcune proposte per una urgente modifica normativa inerente la disciplina del subappalto di cui all’art. 105 del Codice alla luce della sentenza Corte di Giustizia della UE (CGUE) del 26 settembre 2019 (causa C-63/18) che, nell’esaminare una domanda di pronuncia pregiudiziale del TAR Lombardia, ha statuito la non conformità al diritto UE della norma nazionale che prevede un limite quantitativo al subappalto”.
È invero prioritario secondo l’Anticorruzione “fornire alle stazioni appaltanti indicazioni normative chiare, così da scongiurare eventuali contenziosi, prevedendo una rivisitazione dei meccanismi di regolazione del subappalto mediante una opportuna “compensazione” tra i diritti di libertà riconosciuti a livello europeo e le esigenze nazionali di sostenibilità sociale, ordine e sicurezza pubblica, che sono sempre stati alla base della limitazione all’utilizzo dell’istituto. Tale modifica urgente si rende altresì necessaria per garantire il corretto svolgimento dell’attività istituzionale dell’Autorità, soprattutto consultiva e di vigilanza, che, specie nella verifica preventiva degli atti di gara in sede di alta sorveglianza del Presidente ex art. 30 del d.l. 90/2014 e di vigilanza collaborativa ex art. 213, comma 3, lett. h), del Codice, è chiamata a valutare in tempi piuttosto stringenti la conformità al Codice degli atti di gara adottati dalle stazioni appaltanti”.
In altri termini, si tratta di individuare nuovi equilibri nel bilanciare le esigenze di flessibilità organizzativa ed esecutiva per gli operatori incaricati della commessa con una adeguata, irrinunciabile, prevenzione di rischi corruttivi, collusivi, e di turbative in fase di affidamento ed esecuzione. Nell’adeguare la disciplina nazionale in senso conformativo all’orientamento della Corte si dovrebbero prevedere alcuni accorgimenti e “contrappesi” rispetto alla tendenziale espansione della subappaltabilità della commessa[3].
In definitiva, l’ANAC sembra ritenere che la disciplina del subappalto, per la sua complessità e le sue pregnanti implicazioni nel sistema nazionale degli appalti pubblici, non possa essere considerata materia regolamentabile attraverso la lex specialis da ciascuna stazione appaltante, col rischio di comportamenti disomogenei ed erronei. Dovrà essere il Legislatore a definire, con nuovi equilibri e contrappesi, una sintesi adeguata tra “libertà” comunitarie ed esigenze nazionali di prevenzione e contrasto al fenomeno criminoso.
Tale intervento legislativo appare vieppiù indifferibile, data la situazione di incertezza in ordine alla perdurante applicabilità dei suddetti limiti al subappalto generatasi all’indomani della pubblicazione delle sentenze passate in rassegna.
Invero, la questione che stazioni appaltanti ed operatori si trovano a dove sciogliere è individuare quale sia la disciplina applicabile con riferimento alle future procedure di affidamento.
Volendo conformarsi al dictum della Corte di Giustizia, spetterebbe a ciascun interprete l’eventuale disapplicazione del valore soglia del 30% e delle sue conseguenze espulsive e/o preclusive al subappalto. Dunque, in tal senso, si imporrebbe una valutazione caso per caso sulla sua ammissibilità in concreto da parte dell’amministrazione aggiudicatrice che, a prescindere da ogni automatismo e dal mero richiamo al superamento di un certo valore-soglia, è chiamata a motivare in ordine all’effettiva lesione degli interessi sottesi, invece, alla regola opposta, cioè al necessario mantenimento di una certa quota del contratto in capo all’appaltatore e con il conseguente divieto di subappalto.
Analogamente, anche con riferimento all’ammissione/esclusione dell’offerente che intenda o meno superare la soglia del 30% di subappalto, non potrà che analizzarsi, caso per caso, alla luce delle singole motivazioni addotte nei relativi provvedimenti, la legittimità della singola decisione sulla scorta delle coordinate interpretative sin qui tracciate. Per converso, incomberà sull’amministrazione dimostrare che l’eventuale affidamento in subappalto di talune prestazioni, in misura superiore ad un certo valore, comprometta l’affidamento della stazione appaltante sulla buona esecuzione del contratto, in ragione delle peculiarità di quest’ultimo.
Sebbene si tratti di una soluzione che chiama le PA all’assunzione di una rilevante responsabilità (con alto rischio di incrementare il già considerevole numero di contenziosi in tema di appalti), sembra proprio questa la strada che le Corti di merito intendono seguire.
Il riferimento, tra gli altri, è alla recentissima TAR Lecce, 05.12.2019 n. 1938, in cui si legge: “In ordine alla dedotta non applicabilità del limite del 30% di cui all’art. 105 del D.Lgs. 50/2016 al subappalto (…) deve essere evidenziato quanto segue. (…)[4] Nelle more del giudizio che occupa, la Corte di Giustizia Europea, con sentenza C-63/18 del 26 settembre 2019, ha affermato che ‘la direttiva 2014/24 dev’essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi’. La Corte ha evidenziato in particolare che “durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18 della direttiva 2014/24, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità” … “la normativa nazionale di cui al procedimento principale vieta in modo generale e astratto il ricorso al subappalto che superi una percentuale fissa dell’appalto pubblico in parola, cosicché tale divieto si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori. Inoltre, un siffatto divieto generale non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore”.
Alla luce della disamina svolta, non può che auspicarsi un tempestivo intervento del Legislatore nazionale sulla disciplina dell’istituto, in modo da renderla conforme ai principi giurisprudenziali affermati in sede europea, così da fornire a concorrenti, imprese e Stazioni appaltanti un quadro regolatorio chiaro e di più agevole applicazione.
[1] Nella prima pronuncia la questione, regolata dal D.Lgs. 50/2016, è sorta dal giudizio principale innanzi al TAR Lombardia proposto da un’impresa che era stata esclusa dalla procedura di gara per aver superato la quota del 30%. Il giudice nel respingere tutti i restanti motivi, residuando dubbi sulla compatibilità comunitaria di detto limite, ha sollevato la questione con sentenza non definitiva (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. I ,5 gennaio 2018, n. 28). La seconda questione, invece, regolata dal previgente D.Lgs. 163/2006, originava dal procedimento concernente la legittimità dell’aggiudicazione contestata, fra l’altro, in ragione del fatto che le prestazioni lavorative affidate in subappalto fossero retribuite con corrispettivi ribassati di oltre il venti per cento (29,9 %) rispetto a quelli praticati dal medesimo concorrente nei confronti dei propri dipendenti diretti (Cons. St., Sez. VI, ordinanza 11 giugno 2018 n. 3553).
[2] La questione interpretativa sottoposta all’attenzione dei giudici europei era stata sollevata dal Consiglio di Stato (ordinanza 11 giugno 2019, n. 3553), nell’ambito di una controversia riguardante l’impugnazione degli atti di una gara indetta dall’Università La Sapienza di Roma per l’affidamento di un appalto di servizi di pulizia. All’esito della procedura, l’impresa seconda in graduatoria aveva proposto ricorso dinnanzi al TAR per il Lazio avverso il provvedimento di aggiudicazione, sul presupposto che l’offerta prima classificata avesse violato il limite del 30% fissato dall’art. 118, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006 per l’individuazione della quota parte del contratto subappaltabile a terzi; e che, allo stesso tempo, le prestazioni lavorative subaffidate erano retribuite con corrispettivi ribassati di oltre il 20% rispetto a quelli praticati dall’aggiudicatario nei confronti dei propri dipendenti diretti, in aperto contrasto con quanto previsto dal successivo quarto comma del citato art. 118. In primo grado, i giudici amministrativi avevano accolto le domande della ricorrente e, per l’effetto, annullato l’aggiudicazione e dichiarato l’inefficacia del contratto di appalto medio tempore stipulato (TAR Lazio-Roma, sez. III, n. 12511 del 2017); in sede di appello, il Consiglio di Stato – dubitando della compatibilità delle limitazioni previste dalla normativa italiana in materia di subappalto con il diritto dell’Unione – ha, invece, sospeso il giudizio e chiesto alla Corte di Giustizia «se i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli articoli 49 e 56 [TFUE], gli [articoli] 25 della [direttiva 2004/18] e 71 della [direttiva 2014/24], che non contemplano limitazioni per quanto concerne la quota subappaltatrice ed il ribasso da applicare ai subappaltatori, nonché il principio [di diritto dell’Unione europea] di proporzionalità, ostino all’applicazione di una normativa nazionale in materia di appalti pubblici, quale quella italiana contenuta nell’[articolo] 118 commi 2 e 4 del decreto legislativo [n. 163/2006], secondo la quale il subappalto non può superare la quota del [30%] dell’importo complessivo del contratto e l’affidatario deve praticare, per le prestazioni affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con un ribasso non superiore al [20%]».
[3] È stato peraltro evidenziato dall’ANAC come la Corte di Giustizia, pur stabilendo la non conformità̀ al diritto UE del limite quantitativo al subappalto, non sembra aver sancito la possibilità̀ per gli offerenti di ricorrere illimitatamente al subappalto. Infatti, se da un lato il Giudice europeo ha censurato il limite al subappalto previsto dal diritto interno, dall’altro non sembra aver stabilito la possibilità̀ di garantire un subappalto al 100%. Invero, in un passaggio della sentenza si legge che “Tuttavia (…) una restrizione come quella di che trattasi nel procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo”. Con ciò il Giudice lascerebbe in qualche modo intendere che la limitazione non è in sé inammissibile quanto, piuttosto, che l’entità̀ del limite in essere (pari 30% al momento della decisione) appare eccessiva rispetto allo scopo da perseguire. La Corte ha segnalato che il problema del limite quantitativo deriva da un’applicazione indiscriminata rispetto al settore economico interessato, alla natura dei lavori o all’identità̀ dei subappaltatori e al fatto che la disciplina interna non lascia alcuno spazio a valutazioni caso per caso da parte della stazione appaltante circa l’effettiva necessità di una restrizione al subappalto stesso. Se ne ricava – osserva l’Autorità – un quadro normativo in cui la regola generale dovrebbe essere quella del subappalto senza limitazioni quantitative a priori, al chiaro fine di favorire l’ingresso negli appalti pubblici delle piccole e medie imprese, promuovere l’apertura del mercato e la concorrenza in gara. Un eventuale subappalto del 100% delle prestazioni oggetto del contratto, ovvero di una parte talmente rilevante di esse, comporterebbe, di fatto, che la commessa verrebbe svolta sostanzialmente da terzi e non dal soggetto aggiudicatario.
[4] Nel caso all’esame del Collegio, la società ausiliaria della ricorrente avrebbe dovuto subappaltare più del 90% delle prestazioni oggetto dell’appalto, incorrendo altresì in una violazione del divieto di subappalto “a cascata”.