ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE: LA CASSAZIONE SULL’IPOTESI DI FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ MANDANTE
Con ordinanza n. 34116 del 19 dicembre 2019, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione ha deciso in merito alla sorte dei crediti di una società fallita che, prima della dichiarazione di fallimento, aveva fatto parte di un’Associazione Temporanea di Imprese in qualità di mandante.
Nel caso di specie, la stazione appaltante aveva liquidato la quota di corrispettivi spettante alla mandante fallita con un versamento nei confronti della mandataria.
Il Fallimento della mandante aveva contestato l’esattezza del pagamento effettuato, convenendo in giudizio la stazione appaltante, la quale, a sua volta, aveva chiamato in causa la mandataria (o meglio, trattandosi di un’impresa individuale appartenuta ad un soggetto deceduto, gli eredi di quest’ultimo unitamente ad un’altra società cessionaria della mandataria) per essere manlevata per tutto quanto fosse stata eventualmente condannata a pagare all’attore.
Il Tribunale di Catania aveva accolto tanto la domanda del Fallimento quanto quella della stazione appaltante con una sentenza in seguito confermata dalla Corte di Appello.
La Corte catanese, invero, aveva rilevato che il fallimento di una delle imprese mandanti non provoca lo scioglimento del contratto di appalto di opera pubblica, alla cui esecuzione resta obbligata la capogruppo mandataria, ma esclusivamente la dissoluzione del rapporto di mandato ai sensi dell’art. 78 della legge fallimentare (applicabile ratione temporis alla vicenda in esame nella sua formulazione anteriore alla riforma del 2006[1]). Conseguentemente, sono inefficaci nei confronti della curatela fallimentare i pagamenti eseguiti, in data successiva alla sentenza dichiarativa, da parte della committente a favore della mandataria, e da questa ricevuti in nome e per conto della mandante.
La sentenza di secondo grado è stata impugnata dai soggetti successori della mandataria, i quali asserivano che la Corte d’Appello avrebbe errato nel trascurare come il mandato in questione fosse in rem propriam e disciplinato dalle norme speciali dedicate agli appalti pubblici (dapprima, la legge n. 584/1977, poi la legge n. 406/91 ed il D. Lgs. n. 163/06). Inoltre, secondo le ricorrenti, la decisione d’appello violerebbe il secondo comma dell’art. 1723 cod. civ., che sancisce l’irrevocabilità del mandato conferito nell’interesse del mandatario e/o di terzi, norma che avrebbe carattere speciale prevalente sull’art. 78 l. fall., applicabile al solo mandato ordinario.
Ebbene, la Suprema Corte ha respinto l’impugnazione, osservando che, ai sensi degli artt. 23 e 25 del D. Lgs. n. 406/91, qualora una delle società mandanti fallisca, i pagamenti per lavori realizzati in antecedenza devono essere effettuati nei confronti della curatela fallimentare, con l’effetto che la stazione appaltante, che abbia invece pagato alla mandataria, non è liberata dalla propria obbligazione.
Il fallimento della mandante, infatti, determina, ex art. 78 l. fall. (nel testo applicabile ratione temporis), lo scioglimento del rapporto di mandato, sicché vengono meno i poteri di gestione e rappresentanza già in capo alla mandataria capogruppo (Cfr. Cass., n. 17926/2010; Cass., n. 1396/2003).
In senso inverso non depone il fatto che il mandato sia irrevocabile e che si tratti di un’irrevocabilità più rigida di quella ordinariamente prevista dall’art. 1723, 2° comma, cod. civ., giacché questo carattere non è sancito nell’interesse del mandatario, ma della stazione appaltante, la quale, potendo continuare il rapporto di appalto solamente con una impresa diversa da quella fallita, non ha «alcun apprezzabile interesse alla permanenza di quest’ultima nel raggruppamento».
In definitiva, dal momento che l’impresa fallita non può proseguire nell’esecuzione dell’appalto, non vi sono più i presupposti per la sua permanenza nell’associazione temporanea, né per la conservazione del rapporto di mandato che ne costituisce un logico corollario.
Da ultimo, la Corte di Cassazione ha evidenziato come, contrariamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, la normativa speciale in materia d’appalto di opere pubbliche non ha introdotto deroghe alla disciplina fallimentare, di modo che «la permanenza dei poteri gestori e rappresentativi dell’impresa mandataria anche nei confronti dell’impresa mandante fallita sarebbe chiaramente inconciliabile con le norme che disciplinano l’amministrazione del patrimonio fallimentare e prevedono che essa debba essere inderogabilmente affidata al curatore».
[1] Che prevedeva che «i contratti di conto corrente, di mandato e di commissione si sciolgono per il fallimento di una delle parti». La riforma del 2006 ha introdotto nel medesimo articolo un apposito comma, il secondo, dedicato esclusivamente al mandato: «Il contratto di mandato si scioglie per il fallimento del mandatario».