Illeciti professionali: la Corte di Giustizia sulla valutazione da parte dell’amministrazione dell’illecito professionale contestato in giudizio

Con la Sentenza 19.6.2019 n. C-41/18 la IV Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto che la Stazione Appaltante debba sempre poter valutare la pregressa risoluzione, anche nell’ipotesi in cui sia stata contestata in giudizio, di un precedente contratto per gravi carenze nella sua esecuzione.

La vicenda di fatto sottesa alla pronuncia attiene ad una procedura di gara nell’ambito della quale la Stazione Appaltante aveva autorizzato un operatore economico a proseguire la propria partecipazione nonostante l’impresa avesse dichiarato la pregressa risoluzione, contestata in sede giudiziaria, di un precedente contratto d’appalto.

La suddetta ammissione, difatti, veniva contestata davanti al giudice del rinvio, da un altro operatore economico, partecipante anch’esso alla medesima gara.

L’impresa ricorrente riteneva che la Stazione Appaltante non avrebbe dovuto autorizzare la controinteressata a proseguire la procedura di gara proprio a causa della pregressa risoluzione e contestava all’Amministrazione aggiudicatrice di non aver effettuato alcuna valutazione sulla gravità dell’inadempimento.

In particolare, la ricorrente sosteneva che la contestazione da parte della controinteressata, dinanzi a un giudice civile, della pregressa risoluzione contrattuale non potesse privare l’Amministrazione aggiudicatrice della suddetta prerogativa, stante il disposto dell’articolo 80, comma 5, lettera c), del D.Lgs. n. 50/2016 che la autorizza a dimostrare “con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”.

La Stazione Appaltante e l’impresa controinteressata, invece, ritenevano che la mera contestazione giudiziale della risoluzione impedisse alla prima di effettuare una qualsivoglia valutazione sulla affidabilità della seconda.

Il giudice del rinvio, nel rimettere la questione alla Corte di Giustizia, rilevava che la tesi della Stazione Appaltante e della controinteressata non fossero prive di fondamento, poiché, secondo la giurisprudenza dei giudici italiani, dall’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici si desume che l’offerente che ha mostrato carenze nell’esecuzione di un precedente appalto pubblico deve essere ammesso a partecipare a una gara d’appalto successiva se ha impugnato in giudizio la relativa risoluzione contrattuale.

Tuttavia, il medesimo giudice a quo riteneva, altresì, che il diritto dell’Unione – e in particolare l’art. 57, paragrafo 4, lettere c) e g), della direttiva 2014/24 – potesse ostare a una disposizione nazionale quale l’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici, in quanto tale disposizione priverebbe di effetto il motivo di esclusione facoltativa ivi previsto, dal momento che il potere discrezionale dell’amministrazione aggiudicatrice sarebbe azzerato in caso di contestazione in giudizio di una precedente risoluzione contrattuale.

Nel dirimere la questione, la Corte di Giustizia ha anzitutto rilevato che dal testo dell’art.  57, paragrafo 4, della direttiva 2014/24, “il compito di valutare se un operatore economico debba essere escluso da una procedura di aggiudicazione di appalto è stato affidato alle amministrazioni aggiudicatrici, e non a un giudice nazionale” e che “la facoltà di cui dispone qualsiasi amministrazione aggiudicatrice di escludere un offerente da una procedura di aggiudicazione di appalto è destinata in modo particolare a consentirle di valutare l’integrità e l’affidabilità di ciascuno degli offerenti”.

Inoltre, ha precisato che, ai sensi dell’articolo 57, paragrafo 5, della direttiva 2014/24, “le amministrazioni aggiudicatrici devono poter escludere un operatore economico «in qualunque momento della procedura» e non solo dopo che un organo giurisdizionale ha pronunciato la sua sentenza” e che ciò costituisce un indizio ulteriore della “volontà del legislatore dell’Unione di consentire all’amministrazione aggiudicatrice di effettuare la propria valutazione sugli atti che un operatore economico ha commesso o omesso di compiere prima o durante la procedura di aggiudicazione di appalto”.

Infine, ha rilevato che se un’amministrazione aggiudicatrice dovesse essere automaticamente vincolata da una valutazione effettuata da un terzo (id est il giudice avanti al quale è stata contestata la risoluzione), “le sarebbe probabilmente difficile accordare un’attenzione particolare al principio di proporzionalità al momento dell’applicazione dei motivi facoltativi di esclusione”, precisando che “secondo il considerando 101 della direttiva 2014/24, tale principio implica in particolare che, prima di decidere di escludere un operatore economico, una simile amministrazione aggiudicatrice prenda in considerazione il carattere lieve delle irregolarità commesse o la ripetizione di lievi irregolarità”.

La Corte, pertanto, ha sostenuto che quando uno Stato membro decide di recepire uno dei motivi facoltativi di esclusione previsti dalla direttiva 2014/24, deve comunque rispettarne gli elementi essenziali, quale, in tal caso, quello risultante dal testo dell’art. 57, paragrafo 4, della direttiva 2014/24, dal quale “risulta che il legislatore dell’Unione ha inteso affidare all’amministrazione aggiudicatrice, e a essa soltanto, nella fase della selezione degli offerenti, il compito di valutare se un candidato o un offerente debba essere escluso da una procedura di aggiudicazione di appalto”.

Sulla base delle suesposte considerazioni la Corte di Giustizia ha affermato che l’articolo 80, comma 5, lettera c), del Codice dei contratti pubblici non è idoneo “a preservare l’effetto utile del motivo facoltativo di esclusione previsto dall’articolo 57, paragrafo 4, lettera c) o g), della direttiva 2014/24” in quanto il potere discrezionale conferito all’amministrazione aggiudicatrice è paralizzato dalla semplice impugnativa giurisdizionale, da parte di un candidato o di un offerente, della risoluzione di un precedente contratto di appalto pubblico di cui era firmatario, quand’anche il suo comportamento sia risultato tanto carente da giustificare tale risoluzione.

La Corte, inoltre, ha valorizzato il carattere innovativo della direttiva nella misura in cui istituisce, all’articolo 57, paragrafo 6, il meccanismo delle misure di self-cleaning, sottolineando che una norma come quella prevista dall’articolo 80, comma 5, lettera c), “non incoraggia manifestamente un aggiudicatario nei cui confronti è stata emanata una decisione di risoluzione di un precedente contratto di appalto pubblico ad adottare misure riparatorie”.

Ciò premesso, la IV Sezione della Corte di Giustizia ha risposto al giudice del rinvio concludendo che “l’articolo 57, paragrafo 4, lettere c) e g), della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in forza della quale la contestazione in giudizio della decisione di risolvere un contratto di appalto pubblico, assunta da un’amministrazione aggiudicatrice per via di significative carenze verificatesi nella sua esecuzione, impedisce all’amministrazione aggiudicatrice che indice una nuova gara d’appalto di effettuare una qualsiasi valutazione, nella fase della selezione degli offerenti, sull’affidabilità dell’operatore cui la suddetta risoluzione si riferisce”.

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