DAL 1^ FEBBRAIO OBBLIGATORIO L’ADEGUAMENTO DEI MOG A SEGUITO DELLE MODIFICHE INTERVENUTE SUL D.Lgs. 231/2001

Con l’entrata in vigore della la Legge n. 3 del 09.01.2019, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”, (detta anche “Anticorruzione” –  G.U. n. 13 del 16.01.2019), sono state introdotte una serie di importanti modifiche[1] normative in tema di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, al fine di uniformare la disciplina interna alle indicazioni in materia provenienti dalle istituzioni sovranazionali[2].

In particolare il provvedimento, c.d. “Spazzacorrotti“, così come ribattezzato alquanto enfaticamente da alcuni suoi promotori, è intervenuto, oltre che sul codice penale e sul codice di procedura penale, su alcune disposizioni del Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231[3] (“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”)[4].

L’inasprimento delle misure sanzionatorie per le aziende che abbiano tratto beneficio dai reati di corruzione prevista dalla legge in commento fanno, dunque, tornare in primo piano la cruciale tematica delle misure per mezzo delle quali le imprese posso tutelarsi, attraverso l’adozione di appositi modelli organizzative e protocolli aziendali di contrasto.

Affinchè tali modelli appaiano efficaci, peraltro, occorre che essi siano tali da indicare ex ante, in concreto, meccanismi di decisione e controllo idonei a ridurre l’incidenza del rischio di commissione di illeciti nell’interesse o a vantaggio della società, e che siano dotati dei requisiti di specificità ed attualità.

Ciò evidentemente impone, oltre ad una concreta affidabilità del modello e dei relativi comportamenti, un costante aggiornamento dei modelli stessi, laddove, come nella circostanza oggetto di commento, il legislatore intervenga sulla disciplina di riferimento.

In generale, il MOG si configura come un sistema integrato costituito da norme, strutture organizzative, procedure operative e controlli realizzato per disciplinare e fornire una ragionevole sicurezza circa un adeguato e trasparente svolgimento delle attività della società, al fine di prevenire comportamenti idonei a configurare fattispecie di reato e illecito previsti dal d.Lgs. 231/2001.

Lo stesso o deve rispondere in modo idoneo alle seguenti esigenze:  identificare le “aree critiche[5]”, ovvero le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati;  prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire; individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza del modello; introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

In tal senso, la legge oggetto di disamina, in un’ottica di coordinamento[6] tra la disciplina delle sanzioni delle persone fisiche e quella delle persone giuridiche (artt. 32 ter e 317-bis c.p.), ha riformato l’art. 25 D.lgs. 231/01, rubricato “Concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione tra privati”, sotto diversi profili.

In primo luogo, il novero dei reati presupposto è stato ampliato con l’introduzione al comma 1 del reato di “traffico di influenze illecite” (art. 346 bis c.p.), a sua volta interessato da un’importante riforma, sia in termini di estensione del perimetro della fattispecie, sia in termini di inasprimento della pena che dalla reclusione da uno a tre anni passa alla reclusione da uno a quattro anni e sei mesi[7].

Invero, per rispondere alle indicazioni del GRECO[8] l’art. 1, comma 1, lett. del Ddl ha abrogato il reato di millantato credito (art. 346 c.p.)[9], integrando la fattispecie in quella di traffico di influenze illecite. 

Ciò comporta la punibilità dell’acquirente dell’influenza, anche nel caso in cui la relazione tra il mediatore e il pubblico agente sia solo vantata (e non esistente); l’eliminazione della condizione che la mediazione sia rivolta a far compiere al pubblico ufficiale un atto contrario ai doveri d’ufficio o ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio[10]; la previsione, quale contropartita della mediazione illecita, di “denaro o altra utilità” (mentre nell’attuale formulazione l’art. 346 bis c.p. parla di “denaro o altro vantaggio patrimoniale”).

Inoltre, la sanzione interdittiva prevista per i reati di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 25 (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – art. 319 c.p.; corruzione in atti giudiziari – art. 319 ter c.p.; istigazione alla corruzione – art. 322 c.p., applicabile ex D.lgs. 231/01 sulla scorta del richiamo al corruttore – art. 321 c.p.), è stata inasprita[11], prevedendone una durata “non inferiore a quattro anni e non superiore a sette anni” ove il reato presupposto sia stato commesso da un soggetto apicale ovvero durata “non inferiore a due anni e non superiore a quattro anni” ove il reato presupposto sia stato, invece, commesso da un soggetto sottoposto alla direzione e controllo del soggetto apicale.

Ancora, al comma 5 bis è stata introdotta una sanzione interdittiva attenuata (“non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni”), nel caso in cui prima della sentenza di primo grado l’Ente si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità e abbia eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi[12].

Le esposte modifiche normative, in particolare l’inclusione di questa fattispecie nel novero dei reati presupposto 231, rende necessario, per gli Enti già dotati di Modello di organizzazione, gestione e controllo, un aggiornamento dell’analisi di rischio, in considerazione del fatto che lo stesso può concretizzarsi in attività che pongono in relazione due soggetti privati, (uno dei quali funge da intermediario “illecito” vero un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio in cambio di un interesse o vantaggio), e verificando, dunque, l’adeguatezza del sistema dei controlli interni esistenti[13].

Per gli Enti che non ne siano dotati, stante la potenziale estensione della fattispecie, le esposte novità possono costituire motivo per valutare l’adeguamento al D.Lgs. 231/01, con tutte le relative conseguenze, anche in termini di vantaggi riferiti al rating di legalità[14].

Invero, va ricordato come tra i requisiti posti ai fini del riconoscimento del rating in misura superiore al punteggio minimo di una stella vi è il possesso e l’attuazione di un MOG.

In tal senso, il Modello Organizzativo si pone come elemento premiante per le aziende, che intendono spendere un punteggio più elevato nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, ad esempio per accedere ai finanziamenti pubblici e per ottenere vantaggi competitivi ed economici.

Inoltre, le aziende che non ne sono ancora dotate possono cogliere l’occasione di adeguamento alle modifiche normative esposte, per prevedere all’interno del Modello di Organizzazione Gestione e Controllo un efficace sistema di Whistleblowing, così come previsto dalla la legge 30 novembre 2017, n. 179[15], recante appunto “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato[16], emanata con l’obiettivo di individuare strumenti di tutela nei confronti dei whistleblower, predisponendo un canale per le segnalazioni da parte dal personale aziendale in relazione ad attività illecite delle quali sia venuto a conoscenza per ragioni di lavoro[17].

 

 

[1] Per una disamina in merito si rinvia a REATI CONTRO LA P.A.: IN GAZZETTA IL DECRETO «SPAZZACORROTTI» a cura dello scrivente e dell’Avv. Sara Lepidi, in https://www.piselliandpartners.com/news-di-settore/concorrenza-ed-attivita-regolate/reati-contro-la-p-a-in-gazzetta-il-decreto-spazzacorrotti/.
[2] Nella Relazione introduttiva al Disegno di legge è chiarito che uno degli scopi principali dell’intervento legislativo è quello di adeguare la normativa interna agli obblighi convenzionali imposti al nostro Paese dalla Convenzione Penale sulla Corruzione del Consiglio d’Europa del 1999 e adeguarsi alle indicazioni del GRECO (Group d’etat contre la corruption), organo di monitoraggio istituito dal Consiglio d’Europa e previsto dalla citata Convenzione.
Lo scorso 18 giugno 2018 il GRECO ha approvato l’‘Addenda al Second Compliance Report sull’Italia, documento costituisce l’esito di una procedura di valutazione volta a verificare se il nostro Paese ha messo in pratica le indicazioni che gli erano state in precedenza rivolte al fine di uniformare la propria legislazione alla normativa del Consiglio d’Europa ed in particolare alla richiamata Convenzione penale sulla corruzione.
[3] Il Decreto 213/01 ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità amministrativa degli enti per alcune tipologie di reati ed illeciti (come, ad esempio, reati contro la pubblica amministrazione ed i reati societari), qualora tali reati siano stati commessi da soggetti in posizione apicale (avente funzioni di rappresentanza, di amministrazione e di direzione dell’ente) oppure da soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza, nell’interesse o a vantaggio degli enti stessi. Come si legge infatti nella relazione ministeriale, “tale responsabilità [quella amministrativa], poiché conseguente da reato e legata alle garanzie del processo penale, diverge in non pochi punti dal paradigma di illecito amministrativo (…) con la conseguenza di dar luogo alla nascita di un tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia”.
[4] Art. 1, comma 9, della Legge n. 3/2019: Al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, sono apportate le seguenti modificazioni:
  1. a) all’articolo 13, comma 2, le parole: «Le sanzioni interdittive» sono sostituite dalle seguenti: «Fermo restando quanto previsto dall’articolo 25, comma 5, le sanzioni interdittive»;
  2. b) all’articolo 25:
1) il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321, 322, commi primo e terzo, e 346-bis del codice penale, si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote»;
 2) il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a quattro anni e non superiore a sette anni, se il reato e’ stato commesso da uno dei soggetti di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), e per una durata non inferiore a due anni e non superiore a quattro, se il reato è stato commesso da uno dei soggetti di cui all’articolo 5, comma 1, lettera b)»;
3) dopo il comma 5 è aggiunto il seguente: «5-bis. Se prima della sentenza di primo grado l’ente si e’ efficacemente adoperato per evitare che l’attivita’ delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilita’ trasferite e ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, le sanzioni interdittive hanno la durata stabilita dall’articolo 13, comma 2»;
c) all’articolo 51
1) al comma 1, le parole: «la metà del termine massimo indicato dall’articolo 13, comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «un anno»;
2) al comma 2, secondo periodo, le parole: «i due terzi del termine massimo indicato dall’articolo 13, comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «un anno e quattro mesi»”.
[5] Il riferimento è, ad esempio, ad attività di gestione di contratti di consulenza e prestazione professionale (non commerciale), di gestione dei rapporti e contratti con la P.A., gestione di spese di rappresentanza ed ospitalità, ecc.
[6] Per esigenze di mero coordinamento, allo stesso articolo 6 viene modificato anche l’art. 13 comma 2 del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, al fine di chiarire che la durata delle sanzioni interdittive ivi prevista in via generale (non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni) è derogata dalla disposizione di cui all’art. 25, comma 5.
[7] Il nuovo art. 346 bis c.p. dispone, al primo comma, che: «Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322 bis, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322 bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322 bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, è punito con la pena della reclusione da anni uno ad anni quattro e mesi sei».
[8] V. nota n.2.
[9] Tale reato, presente nel codice penale fin dalla sua originaria stesura nel capo dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, puniva due diverse azioni; quella di chi, “millantando” credito (e cioè vantando un’influenza) presso un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, si faceva dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della mediazione e quella di chi si faceva dare o promettere danaro o altra utilità con il pretesto di dover comprare il favore di un pubblico agente o di doverlo remunerare. In entrambe le forme indicate, la “vanteria” dell’agente (la cd. venditio fumi) era fondata, però, su una rappresentazione non veritiera della possibilità di influenzare le decisioni del pubblico funzionario. Tale ultimo aspetto avvicinava l’ipotesi criminosa in esame alla truffa, reato, in questo caso, contro il patrimonio, consistente nel procurarsi un ingiusto profitto, attraverso artifici o raggiri tali da indurre qualcuno in errore. Tutti e due i delitti citati, a ben vedere, richiedevano per la loro integrazione un’attività di tipo fraudolento o, comunque, di inganno.
[10] In questo modo, diventa penalmente rilevante anche l’esercizio di un’influenza che ha lo scopo di asservire il pubblico agente o di fargli compiere un atto conforme ai doveri dell’ufficio. È comunque prevista una pena più grave nel caso in cui la mediazione sia indirizzata al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
[11] con esplicito riferimento alle sanzioni di cui all’art. 9, comma 2 D.lgs. 231/01 ossia all’interdizione dall’esercizio dell’attività, alla sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni, al divieto di contrattare con la P.A., all’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e all’eventuale divieto di pubblicizzare beni o servizi.
[12] E’ chiaro che le novità dei punti II e III non riguardano il reato presupposto del traffico di influenze illecite, visto l’inserimento dell’art. 346 bis c.p. nel solo primo comma e del mancato rinvio allo stesso nel comma 5 e, conseguentemente, nel comma 5 bis e vista, dunque, la mancata previsione di sanzioni interdittive per l’Ente al riguardo. Si tratta di sanzioni che una società potrebbe vedersi infliggere, in aggiunta a quelle pecuniarie, per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai propri amministratori, da dipendenti o altre persone che abbiano con essa un rapporto qualificato.
[13] Si sottolinea come peraltro alcune aziende siano già dotate di modelli comprensivi di misure per il contrasto di tale illecito, nella considerazioni che la condotta che identifica la fattispecie si prospetta prodromica o comunque contigua rispetto a quelle di cui agli artt. 317 ss. c.p..
[14] Il rating di legalità è un meccanismo che premia le imprese gestite con diligenza e nel rispetto della legge. Richiedere il rating di legalità e ottenere un buon punteggio di valutazione (da una a tre stelle) permette all’impresa di accedere a particolari vantaggi in diversi settori come, ad esempio, nella concessione di finanziamenti pubblici o nell’accesso al credito bancario.
[15] adottata dopo un iter legislativo avviato nel 2015, con l’intento di riformare la materia del whistleblowing nel settore pubblico e in quello privato, sopperendo così a uno scenario definito dalla Commissione Europea dal carattere piuttosto generico e non esaustivo.
[16] Oltre ad introdurre significative novità in tema di tutela del dipendente pubblico che segnala un illecito, la Legge ha disposto alcune modifiche al D.Lgs. n. 231/2001, estendendo al settore privato la tutela del dipendente o collaboratore che segnali illeciti o che riconosca violazioni relative al Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo dell’ente, di cui sia venuto a conoscenza nell’ambito delle proprie mansioni lavorative.
[17] In realtà, l’art. 2 del Decreto 231 già disponeva che i modelli organizzativi dovessero prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’Organismo di Vigilanza (OdV). Pertanto, ancor prima di tale riforma, molti MOG prevedevano al loro interno casi e modalità di invio di flussi informativi verso l’OdV, rispetto ai quali il Whistleblowing pare sovrapporsi; la vera novità della norma consiste nell’esplicitazione di strumenti di tutela per gli autori delle segnalazioni di illeciti conosciuti nell’ambito dell’attività lavorativa, ossia la formalizzazione del divieto di atti di ritorsione o discriminatori per ragioni connesse alla segnalazione.  
Torna su
Cerca