Gli NFT e il difficile dialogo col mondo dei beni culturali
Approfondimento a cura della Dott.ssa Serena Nardoni
NFT (Non-Fungible Token) è un acronimo ormai d’uso comune, anche grazie alla diffusione che i social media e i canali d’informazione hanno contribuito ad alimentare, soprattutto in conseguenza dell’imprevista accelerata sul fronte della smaterializzazione dei rapporti.
Partendo dall’assunto che l’NFT non coincide con l’opera d’arte, ma ne rappresenta il valore e la prova incontrovertibile di provenienza della certificazione e legittimazione al possesso, è facile comprendere come, sull’onda dell’entusiasmo di progetti che hanno generato un’eco economica particolarmente rilevante per il mercato dell’arte digitale (vedi il caso Beeple, la cui opera è stata battuta all’asta da Christie’s, nel marzo 2021, per 69,3 milioni di dollari – ne abbiamo parlato qui), non siano mancati tentativi di includere in questo sistema anche l’arte tradizionale.
Tra i principali vantaggi: creare un canale parallelo per la diffusione, la valorizzazione e commercializzazione della copia digitale (c.d. digital twin) senza compromettere la disponibilità o l’integrità fisica del bene; rispondere al problema dell’illiquidità del mercato dell’arte; includere nuovi collezionisti in ambo i mercati; agevolare la circolazione di diritti connessi all’opera d’arte e/o al suo digital twin.
Ci si sposta, quindi, dalla considerazione dell’opera fisica alla immaterialità dell’opera digitale e da questa immaterialità ai diritti connessi in relazione ai possibili usi.
In altri termini, se l’opera fisica si caratterizza per l’unicità, l’opera digitale, una volta inserita nel Web, perde tale connotazione: chiunque può usufruirne e goderne visivamente. L’opera digitale può tuttavia recuperare questa connotazione in termini di diritti. Ciò è possibile proprio attraverso gli NFT, i quali incorporano – con gli appositi strumenti giuridici (ossia gli smart contract) – i diritti di fruizione e di sfruttamento economico della versione digitale dell’opera fisica, mantenendo traccia della storia delle transazioni dell’NFT, risalendo fino all’originario emittente.
Fin qui si colgono le ottime potenzialità del sistema, ma non emergono le criticità che ne stanno ostacolando la diffusione nel mondo dell’arte tradizionale.
In dottrina è da sempre dibattuta la remunerabilità del bene culturale in quanto bene di interesse pubblico o anche “bene comune”: è ormai opinione condivisa anche dall’Unione Europea che le risorse del patrimonio culturale, indipendentemente da chi ne sia proprietario o detentore, sono portatrici di un valore che appartiene a tutti i membri della comunità.
Già in occasione della Conferenza internazionale “Patrimonio culturale come bene comune. Verso una governance partecipativa del patrimonio culturale nel terzo millennio”, alle premesse si legge:
La globalizzazione, la digitalizzazione e la progressiva diffusione delle nuove tecnologie stanno cambiando il modo in cui il patrimonio culturale viene prodotto, presentato, reso accessibile e utilizzato, dischiudendo nuove opportunità e nuove sfide per la condivisione delle risorse. Il patrimonio culturale è sempre più riconosciuto come il vantaggio competitivo dell’Europa nello scenario globale e la cultura identificata come uno strumento diplomatico nelle relazioni internazionali. Questi cambiamenti stanno conducendo a un’evoluzione del valore economico, culturale e sociale del patrimonio, che richiede politiche e soluzioni di governance più innovative di quelle finora adottate.
In questo senso, la tecnologia blockchain e la tokenizzazione degli asset potrebbero rispondere a quelle necessità di governance di cui da tempo si avverte l’esigenza, pur ritenendosi imprescindibile l’applicazione di quegli strumenti tecnico-amministrativi già noti al mondo dell’arte e del patrimonio culturale, nonchè l’elaborazione di contenuti che non siano mere riproduzioni digitali del bene fisico, ma che puntino ad offrire servizi ed esperienze ulteriori, in grado di arricchire il fruitore-collezionista.
In particolare, due sono i casi d’uso che stanno sollecitando riflessioni e ponendo un freno all’affermazione del fenomeno NFT nell’ambito pubblico-istituzionale.
Sul primo punto, muoviamo la riflessione da un esempio italiano, quello del sodalizio tra le Gallerie degli Uffizi e la società milanese Cinello s.r.l., sancito da un accordo sulla concessione in uso delle immagini relative ad opere conservate nel Museo (firmato nel dicembre 2016 e scaduto a fine 2021). Tale concessione è stata frutto di un affidamento diretto, senza che sia intervenuta alcuna procedura di gara ad evidenza pubblica, scelta giustificata dal fatto che non si sarebbe trattato di una concessione esclusiva.
Tuttavia, è opinione di diverse fonti che, sebbene nel contratto tale concessione non sia in via esclusiva, di fatto essa sarebbe presumibile nella clausola in cui si dice che gli Uffizi non possono, con azioni future, pregiudicare il valore commerciale delle opere di Cinello. Un’eventualità non remota qualora il Museo decidesse di procedere ad analoga operazione con altro soggetto – difatti, si è già detto come il valore dell’NFT risieda nella sua unicità, rarità o scarsità.
Per la realizzazione dell’operazione, gli Uffizi non avrebbero concordato un vero e proprio canone – come previsto all’art. 108 del d.lgs. n. 42/2004 – bensì il 50% di quanto ricavato dalla vendita degli NFT realizzati da Cinello. Un corrispettivo congruamente alto, a detta delle parti, considerato che le quote per l’utilizzo delle immagini si aggirano solitamente intorno al 10-25%, a seconda del prodotto e del mercato specifico per il quale è autorizzato l’uso.
Il cuore della vicenda è tuttavia un altro: l’acquirente dell’unica opera attualmente tokenizzata e venduta, ossia il Tondo Doni di Michelangelo, quali diritti ha acquistato? Possiamo parlare di “alienazione di diritti”, in contrasto con quanto previsto agli artt. 106-108 del d.lgs. n. 42/2004? I timori sarebbero infondati, a parere del Museo, in quanto Il contraente non ha alcuna facoltà di impiegare le immagini concesse per mostre o altri utilizzi non autorizzati, e il patrimonio rimane fermamente nelle mani della Repubblica Italiana.
A sostegno di ciò un portavoce di Cinello afferma:
Ci teniamo a precisare che Cinello non vende NFT, ma DAW® (Digital Artwork). La nostra è una tecnologia brevettata (registrata in Italia, Cina, USA ed Europa) che consente la digitalizzazione delle opere d’arte dei nostri musei partner per fornire nuove fonti di reddito.
E aggiunge:
“Cinello non detiene diritti esclusivi con i musei pubblici. Tutti i diritti sull’opera d’arte rimangono al museo che ne possiede l’originale. Creiamo un nuovo diritto legato al nostro brevetto, che è il DAW®. Il collezionista che acquista il DAW ® per contratto non può esporlo in mostre pubbliche: l’opera è fruibile per uso privato. I DAW® sono creati proprio per mantenerne il controllo (che resta nelle mani di Cinello e dei musei partner) e non disperdere il patrimonio culturale nel mondo digitale.
Le posizioni degli Uffizi e Cinello non convincono il MiC che, a valle di una ricognizione operata dalla Direzione Generale Musei sugli accordi stipulati fino a maggio 2021, ha invitato a sospendere le attività in corso per assumere atti di indirizzo e coordinamento uniformi su tutto il territorio nazionale. Nel dicembre 2021, in tal senso, è stata istituita una Commissione di esperti per l’elaborazione di linee guida operative in merito agli NFT e alla Crypto Art, muovendo dalla proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo ai mercati delle cripto-attività (MiCA).
Il punto cruciale resta, quindi, quello della determinazione del contenuto degli NFT, soprattutto in un contesto delicato quale quello del patrimonio culturale. Non si può ragionare in termini di alienazione del diritto di riproduzione del bene, come evidenziato dal direttore generale dei musei Massimo Osanna, ma sulla creazione di servizi ed esperienze diverse dal bene che si intende valorizzare.
Qui viene in aiuto il secondo caso d’uso, quello del British Museum, la prima realtà museale a vendere NFT delle proprie opere sulla piattaforma blockchain di LaCollection. Per iniziare, il British ha lanciato di una serie di cartoline digitali tratte delle opere di Katsushika Hokusai in occasione dell’inaugurazione della mostra “The Great Picture Book of Everything”, continuando poi con una raccolta di opere del pittore William Turner e di Giovanni Battista Piranesi.
Gli NFT sono suddivisi in base al numero di riproduzioni disponibili: dall’Ultra Rare al Common, passando per il Super Rare e il Limited.
Il servizio è incentrato unicamente sull’acquisto di cartoline digitali legate a mostre temporanee, senza la previsione di contenuti ulteriori che arricchiscano l’esperienza del fruitore. Ma il British è solo uno dei musei dell’Europa continentale che negli ultimi anni hanno avviato l’esplorazione della tecnologia blockchain attraverso l’emissione di NFT. Questo, probabilmente, anche in conseguenza della necessità di trovare canali alternativi di remunerazione sul fronte dei canoni concessori per l’uso delle immagini relative ai capolavori della storia dell’arte ormai caduti in “pubblico dominio” e quindi, secondo recente direttiva europea, non più sottoposti a diritto d’autore o diritti connessi.
L’art. 14 della direttiva UE 2019/790, nota come Direttiva Copyright, recita:
Gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore.
Sui singoli stati membri cade l’onere di recepimento della direttiva e le possibili alternative esplorabili per ovviare alla liberalizzazione della circolazione delle immagini.
C’è da chiedersi se, terminato l’entusiasmo iniziale, tale necessità possa ritenersi sufficiente per mantenere alto l’interesse nell’estendere l’uso degli NFT superando le resistenze già evidenti nel nostro ordinamento – che, come noto, è tra i più articolati e completi nell’ambito della tutela del patrimonio culturale.
La sfida, come sempre, è quella di rilanciare il valore dell’innovazione tecnologica esaltandone le potenzialità e di ragionare in termini di “contenuto”, ossia di diritti inclusi nell’NFT.
Senza diritti, o senza la consapevolezza di essi, non c’è valore.