IL TAR LAZIO FA IL PUNTO SUGLI OBBLIGHI DICHIARATIVI A CARICO DELL’OPERATORE ECONOMICO
Il commento a cura degli Avv.ti Giuseppe Imbergamo e Patrizio Giordano
Con la sentenza n. 7742 del 6.7.2020, il T.A.R. Lazio, sede di Roma, Sez. II, è ritornato sulla questione relativa agli obblighi dichiarativi in merito ad una fattispecie potenzialmente integrante un illecito professionale affermando alcuni importanti principi.
Nel caso al vaglio del Collegio, difatti, l’operatore economico aveva presentato la domanda di partecipazione alla procedura di gara dichiarando di non aver riportato alcuna condanna rilevante a fini escludenti, né ai sensi dell’art. 80, co. 1, né ai sensi dell’art. 80, co. 5 del D.Lgs. n. 50/2016.
Tuttavia, dal casellario era emerso che il legale rappresentante del concorrente aveva riportato una sentenza di condanna – divenuta irrevocabile nel giugno 2016 – per un reato che non rientrava in alcuna delle fattispecie di cui all’art. 80 co. 1, ma in relazione alla quale era stata comminata la pena accessoria dell’incapacità di contrattare con la p.a. per la durata di anni uno e quindi rientrante, secondo la S.A., nell’art. 80, co. 1, lett. g) (per cui deve essere espulso l’operatore economico in caso di “ogni altro delitto da cui derivi, quale pena accessoria, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione”).
La S.A. pertanto, aveva espulso l’operatore economico, ai sensi dell’articolo 80, comma 5 lett. c-bis e f-bis, per aver omesso di dichiarare detta condanna in quanto, nonostante fosse decorso il termine annuale della durata della pena accessoria, la fattispecie avrebbe comunque dovuto essere dichiarata per consentire alla S.A. ogni opportuna valutazione discrezionale ai sensi dell’art. 80, co. 5 del D.Lgs. n. 50/2016.
Il Collegio, prima di entrare nel merito della vicenda, ha ribadito un importante principio in tema di interesse a ricorrere al precipuo fine di tutelare la propria reputazione.
Difatti, ha preliminarmente disatteso l’eccezione di inammissibilità per carenza d’interesse mossa dalla S.A. resistente, fondata sul presupposto che l’operatore economico non avesse espressamente richiesto l’aggiudicazione ma impugnato il provvedimento di esclusione al fine principale di tutelare la propria reputazione (dall’esclusione, infatti, era derivata anche la connessa segnalazione all’ANAC per i provvedimenti di propria competenza).
Il T.A.R. Lazio, accogliendo le argomentazioni della ricorrente, ha ritenuto sufficiente la finalità di tutelare la propria reputazione al fine di radicare l’interesse alla coltivazione del ricorso quand’anche non venga espressamente richiesta l’aggiudicazione (nel caso in esame, ove al momento dell’esclusione la ricorrente era rimasta l’unico concorrente in gara, era comunque stata impugnata la dichiarazione di non aggiudicazione della gara) e precisato che, in ogni caso, il concorrente avrebbe comunque potuto agire per proporre azione risarcitoria.
Nello specifico, il Collegio ha chiarito che:
- sussiste “un interesse a che sia in ipotesi accertata la correttezza del proprio comportamento al fine di evitare le conseguenze lesive derivanti dal provvedimento di esclusione, suscettibili di pregiudicare la partecipazione a future procedure di gara in quanto incidenti sulla reputazione aziendale che è anch’essa indubbiamente un bene giuridico tutelato dall’ordinamento (si pensi solo in materia di appalti pubblici agli istituti del rating di legalità e del rating di impresa)”;
- “l’utilità ricavabile dall’accoglimento del ricorso non deve necessariamente involgere la sfera patrimoniale del ricorrente potendo consistere anche nella lesione del prestigio o dell’immagine dello stesso ed incidere, pertanto, sulla sfera morale della persona fisica o giuridica”;
- “nella fattispecie, essendo la ricorrente l’unico concorrente rimasto in gara al momento dell’impugnata esclusione, è evidente che in caso di esito favorevole del gravame, la procedura regredirebbe alla fase dell’aggiudicazione provvisoria e della verifica dei requisiti con la possibilità per la società di conseguire l’aggiudicazione definitiva. Così come, laddove l’amministrazione avesse nelle more bandito una nuova procedura, ovvero deciso di non assegnare più la commessa, residuerebbe in capo alla ricorrente, sussistendone i presupposti, la possibilità di proporre un’azione risarcitoria”.
Nel merito, invece, la seconda Sezione del Tribunale ha affermato che, nel caso in esame, non sussistesse alcuna dichiarazione omessa, mendace o fuorviante in quanto la fattispecie contestata non doveva in alcun modo essere dichiarata dall’operatore economico, né ai sensi dell’art. 80, co. 1, né ai sensi dell’art. 80, co. 5 del D.Lgs. n. 50/2016.
Quanto al comma 1, ha affermato che la condanna non ricadeva in alcuna delle ipotesi escludenti ivi previste, neanche nella lettera g), in quanto la pena accessoria, della durata di un anno, era spirata al momento della partecipazione alla gara, risalente ad ottobre 2019, quando la sentenza di condanna era divenuta irrevocabile nel giugno 2016 e quindi il termine annuale dell’incapacità di contrattare con la P.A. era scaduto nel giugno 2017.
In particolare, il Collegio ha affermato che “nella fattispecie in esame la condanna di cui non è stata fatta menzione nella dichiarazione relativa al possesso dei requisiti di moralità professionale concerneva una pena accessoria di incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione della durata di un anno che aveva esaurito i propri effetti interdittivi più di due anni prima dell’indizione della gara oggetto del presente giudizio e che, pertanto, non poteva più ritenersi rilevante ai fini dell’esclusione automatica della società per effetto di quanto disposto dall’articolo 80, comma 10 del Codice. Alla luce di tale circostanza e della valutazione vincolata circa la sussistenza dei requisiti di cui all’articolo 80, comma 1 del Codice, non si può ritenere che la ricorrente abbia falsamente attestato di possedere i requisiti per la partecipazione alla gara ai sensi della citata disposizione”.
Quanto al diverso comma 5, invece, il Collegio, applicando i principi di cui all’art. 57 , co.7, della Direttiva 2014/24/UE e all’articolo 80, co. 10-bis) del D.Lgs. n. 50/2016, come introdotto dalla L. n. 55/2019 (di conversione del c.d. decreto “sblocca-cantieri) e nel solco della più recente giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 5.3.2020, n. 1605; T.A.R. Lazio, sede di Roma, Sez. II-ter, 11.5.2020, n. 4917) ha escluso l’obbligo dichiarativo ritenendo, anzitutto, sussistente un limite temporale triennale per le condanne non automaticamente escludenti.
Nello specifico, il T.A.R. Lazio ha affermato che “sia ai sensi della normativa comunitaria direttamente applicabile (articolo 57 , comma 7, della Direttiva 2014/24/UE) che ai sensi della più recente normativa introdotta a livello nazionale e applicabile ratione temporis alla fattispecie (articolo 80, comma 10 bis), la stazione appaltante non può escludere ai sensi dell’articolo 80, comma 5, lett. c) un concorrente laddove le circostanze che potrebbero costituire un grave illecito professionale si siano verificate nel periodo antecedente l’ultimo triennio. Tale arco temporale nel caso di contestazione giudiziale deve essere computato a far data dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. Nel caso di specie, i fatti costituenti la condotta sanzionata sono relativi ad oltre 11 anni prima rispetto all’indizione della gara e, al momento della partecipazione erano comunque decorsi tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna con la conseguenza che, in caso di espressa menzione della condanna, la stessa non avrebbe potuto formare oggetto di valutazione ai fini dell’esclusione da parte della stazione appaltante”.
Il Collegio, inoltre ha, altresì, rilevato che, come prospettato dal ricorrente, il reato era stato commesso quando il soggetto apicale era legale rappresentate di un diverso operatore economico e che pertanto, anche per tale ragione, non sussistesse alcun obbligo dichiarativo, che si radica solo allorquando il reato sia commesso a vantaggio o nell’interesse dell’ente o tutt’al più nell’ambito dell’attività professionale svolta in concomitanza con la carica ricoperta.
E infatti, il giudice ha precisato che “il reato tributario in questione era stato sì commesso dal legale rappresentante della ricorrente ma quando questi ricopriva il ruolo di legale rappresentante di un diverso operatore economico e, quindi, evidentemente nell’esclusivo interesse di quest’ultimo. In relazione al suddetto profilo si rileva che la giurisprudenza citata dalla resistente e il richiamo alle Linee Guida Anac (n. 6) non appaiono risolutivi con riguardo alla fattispecie in quanto, se è vero che le condanne riportate dalle figure apicali di una società possono essere valutate dalla stazione appaltante ai fini della sussistenza di un grave illecito professionale stante il principio dell’immedesimazione organica e in ragione della considerazione che il nostro sistema penalistico non prevede, se non nella forma peculiare di cui al D.Lgs 231/2001, la responsabilità penale delle persone giuridiche, è anche vero che quantomeno deve ritenersi necessario che il reato commesso dalla figura apicale sia commesso a vantaggio o nell’interesse dell’ente (che è il medesimo requisito richiesto anche ai fini dell’imputabilità della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs 231/2001), o tutt’al più nell’ambito dell’attività professionale svolta in concomitanza con la carica ricoperta“.
Da ultimo, nel caso concreto, il Collego ha anche ravvisato la buona fede dell’operatore economico in virtù del fatto che il concorrente aveva già dichiarato la medesima fattispecie nella precedente gara bandita dalla stessa S.A.. In particolare, il provvedimento reca che “dalle informazioni fornite in sede di chiarimenti, emergeva, altresì, la buona fede della ricorrente che in una precedente gara gestita sempre da OMISSIS aveva dichiarato (sotto forma di inserzione di informazioni aggiuntive) l’esistenza della sentenza di condanna in questione e, nonostante ciò, in seguito alla richiesta di chiarimenti della stazione appaltante, era stata ammessa a partecipare alla fase successiva della gara. Nessun vantaggio, pertanto, avrebbe tratto la OMISSIS dalla falsa dichiarazione contestata avendo già avuto modo di verificare in altra gara che la stazione appaltante non riteneva il precedente penale rilevante nel merito ai fini della valutazione circa l’affidabilità e l’onorabilità della società. Pertanto, la determinazione della stazione appaltante non appare sorretta nemmeno dalla necessità di tutelarsi rispetto ad una presunta inaffidabilità della società ricorrente comprovata dalla reticenza nel fornire le informazioni dovute” e che “la falsità, dunque, non può essere imputata alla ricorrente nemmeno sotto un profilo soggettivo in quanto manca evidentemente la volontà di rendere una dichiarazione mendace nella specie del dolo generico, non essendo prevista dall’ordinamento la forma colposa del reato in questione”.
In definitiva, l’accertata esistenza del limite triennale circa la rilevanza del fatto potenzialmente integrante il grave illecito professionale, la circostanza che il reato fosse stato commesso dal legale rappresentante della ricorrente quando questi ricopriva il ruolo di legale rappresentante di un diverso operatore economico, nonché la circostanza che il medesimo fatto fosse già stato dichiarato alla stessa S.A. hanno indotto il Tribunale a ritenere insussistente l’obbligo della società ricorrente di dichiarare la condanna indicata nel provvedimento di esclusione.