Illegittimità costituzionale del terzo comma dell’art. 630 cod. proc. civ.
Illegittimità costituzionale del terzo comma dell’art. 630 cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che non possa far parte del collegio che decide sul reclamo il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato.
A cura degli Avv.ti Ugo Altomare, Emilia Piselli, Fabrizio Vomero.
La recente sentenza della Corte Costituzionale n. 45 del 6 febbraio – 17 marzo 2023 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale – I Serie Speciale, Corte Costituzionale – n. 12 del 22 marzo 2023) si è occupata della questione di legittimità dell’art. 630, terzo comma, del codice di procedura civile sollevata in via incidentale dal Tribunale ordinario di Udine.
Il giudice del rinvio contestava l’illegittimità della norma
«nella parte in cui richiama l’applicazione dell’art. 178, quarto e quinto comma c.p.c., disponendo quindi che il reclamo si propone al giudice dell’esecuzione (con ricorso o all’udienza) e che del collegio giudicante sul reclamo faccia parte anche il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato, anziché richiamare quanto previsto dall’art. 669-terdecies, comma secondo, primo periodo, c.p.c. o dall’art. 186-bis disp. att. c.p.c.».
La questione verteva, in sostanza, sulla composizione del collegio chiamato a decidere in merito al reclamo proposto avverso all’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione aveva rigettato l’istanza di estinzione del giudizio esecutivo immobiliare avanzata dalle debitrici esecutate.
Le reclamanti, infatti, nel proporre la loro impugnazione, avevano sostenuto l’illegittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 111 Cost., di una serie di norme del codice di procedura civile, tra cui gli articoli 50 bis, 50 quater, 178, 630, 669 terdecies e 738, cui si aggiungeva anche l’art. 186 bis delle disposizioni per l’attuazione del codice, disposizioni tutte che consentirebbero la partecipazione, in seno al collegio che decide sul reclamo, del giudice che ha adottato il provvedimento reclamato.
La Consulta ha ritenuto fondata la tesi sostenuta dal Tribunale rimettente.
Ripercorrendo alcuni orientamenti già espressi in relazione a fattispecie analoghe, la Corte ha evidenziato le rilevanti implicazioni, anche con riferimento al processo civile, derivanti dal secondo comma dell’art. 111 Cost., a norma del quale «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale».
Ne deriva, in primo luogo, che il medesimo giudice non possa
«ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché, condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda (cfr. sentenza n. 131 del 1996)» (Cfr. Corte Cost., sentenza n. 387 del 1999).
Pertanto, l’obbligo di astensione per il giudice che “ha conosciuto” della causa come magistrato in altro grado del processo non si applica soltanto al “diverso grado” inteso secondo l’ordine degli uffici giudiziari (ad esempio, la Corte d’Appello rappresenta un grado diverso rispetto al Tribunale), ma si estende anche alla
«fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (…) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario» (Cfr. Corte Cost., sentenza n. 460 del 2005).
È questo, per l’appunto, il caso dei reclami al collegio proposti in relazione a provvedimenti del giudice monocratico che del medesimo Tribunale fa parte; reclami che, secondo la Consulta, presentano una “intrinseca natura impugnatoria” ravvisata nell’avere il provvedimento soggetto a revisione
«una funzione decisoria idonea di per sé a realizzare un assetto dei rapporti tra le parti, non meramente incidentale o strumentale e provvisorio ovvero interinale (fino alla decisione del merito), ma anzi suscettibile – in caso di mancata opposizione – di assumere valore di pronuncia definitiva, con effetti di giudicato tra le parti» (Cfr. Corte Cost., sentenza n. 460 del 2005).
Per tali ragioni, nel corso degli anni, il legislatore è intervenuto, in numerose occasioni, al fine di assicurare l’imparzialità del processo civile anche rispetto a mezzi espressamente qualificati come reclami e a cui deve essere riconosciuta natura impugnatoria «ancorché si propongano dinanzi al medesimo ufficio giudiziario».
Venendo alla questione sollevata dal Tribunale di Udine, la Corte Costituzionale ha riscontrato «la natura lato sensu impugnatoria propria del reclamo di cui all’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ.», in quanto, «se esso non è proposto nei termini previsti, la decisione già adottata in punto di estinzione si stabilizza» (Cfr. Cass., sentenza n. 7877/2022), con conseguenti chiusura del processo esecutivo e cancellazione della trascrizione del pignoramento (ovvero, viceversa, irrevocabilità della decisione di rigetto).
Il giudizio di reclamo rientra, dunque, tra i procedimenti di natura lato sensu impugnatoria, per i quali sono doverose le garanzie costituzionali in tema di terzietà-imparzialità del giudice.
In altri termini, il reclamo rappresenta un’impugnazione in senso sostanziale anche se il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato ed il collegio che deve decidere in merito alla sua eventuale riforma appartengono allo stesso organo giudiziario.
In definitiva, con la sentenza n. 45/23, la Corte Costituzionale ha concluso che
«l’art. 630, terzo comma, cod. proc. civ., è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui stabilisce che, contro l’ordinanza che dichiara l’estinzione del processo esecutivo ovvero rigetta la relativa eccezione, è ammesso reclamo al collegio con l’osservanza delle forme di cui all’art. 178, commi quarto e quinto, cod. proc. civ., senza prevedere che del collegio non possa far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato. Ne conseguono l’obbligo per il giudice dell’esecuzione di astenersi e la facoltà per le parti di ricusarlo, ai sensi dell’art. 52 cod. proc. civ.».