L’INFORMAZIONE ANTIMAFIA INTERDITTIVA NELLA GIURISPRUDENZA RECENTE DELLA SEZIONE III DEL CONSIGLIO DI STATO
Consiglio di Stato, III^, 16.6.2016, n. 2683
Il Consiglio di Stato, a poca distanza dalla recente sentenza Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743, ha ribadito alcuni dei principi affermati dalla Sezione in materia di informativa antimafia interdittiva.
Come noto, l’informazione antimafia interdittiva si configura come strumento che, in un’ottica di tutela anticipata rispetto al rischio di infiltrazioni mafiose, comporta l’esclusione dell’imprenditore dalla possibilità di intrattenere rapporti contrattuali con l’Amministrazione.
In particolare, la ratio dell’istituto è stata individuata dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa “nella salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge”.
A norma dell’art. 91 e ss. del Codice Antimafia, i presupposti per il rilascio del provvedimento interdittivo da parte del Prefetto territorialmente competente sono individuati nei casi di decadenza, sospensione o divieto come effetto delle misure di prevenzione, ex art. 67 del D.Lgs. n. 159/2011, nonché nei tentativi di infiltrazione mafiosa, desumibili a norma dell’art. 84, comma 4[1], del D.Lgs. n. 159/2011.
La valutazione da parte del Prefetto dei suddetti presupposti, connotata dall’utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca e perciò sottratta all’intervento in via sostitutiva da parte del G.A., in ogni caso “non impedisce ad esso di rilevare se i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla norma e di formulare un giudizio di logicità e congruità con riguardo sia alle informazioni assunte, sia alle valutazioni che il Prefetto ne abbia tratto” (tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. III, 14 settembre 2011, n. 5130).
Quanto alla ponderazione degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa, la sentenza n. 2683/2016, ha confermato l’orientamento secondo cui l’Autorità preposta deve valutare il complesso degli elementi emersi nel corso del procedimento, prescindendo dalla logica della certezza probatoria al di là del ragionevole dubbio, propria dell’accertamento penale.
Il criterio di valutazione del rischio di inquinamento mafioso è piuttosto quello del «più “probabile che non”», alla determinazione del quale è rilevante l’apporto fornito da “dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso”: l’interdittiva antimafia può poggiare su fatti “anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione”.
Tra i fatti penalmente rilevanti, invece, la giurisprudenza della Sezione identifica i provvedimenti dell’A.G. che dispongano “una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011”.
L’Amministrazione può porre a fondamento della propria decisione anche elementi contenuti nella parte motiva dei provvedimenti emanati dal giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, laddove riflettano il fumus di un condizionamento dell’attività d’impresa da parte delle associazioni malavitose, oppure l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni.
Un aspetto di particolare interesse concerne i legami familiari e rapporti di parentela tra soggetti operanti nelle imprese e soggetti inquadrabili all’interno di associazioni mafiose. In tale intricato frangente, il G.A. ha evidenziato che al rapporto tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose può esser dato rilievo qualora, “per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto”.
Proprio “la famiglia” costituisce elemento rilevante per ravvisare gli indici dell’infiltrazione mafiosa: in proposito, il Consiglio di Stato arguisce che “nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; (…) una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione”.
Da questa considerazione i giudici di Palazzo Spada fanno discendere che “hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito)”.
Tali ultime considerazioni, di approfondimento in termini sociologici della fenomenologia criminale di stampo mafioso, vanno necessariamente poste in relazione con l’evolversi della criminalità organizzata, la quale da tempo prescinde dall’operare solo in specifici “contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso”, contaminando con il tipico modus agendi realtà (anche metropolitane) ritenute prima d’oggi impermeabili.
In tali frangenti, il riconoscimento stesso del carattere mafioso dei sodalizi criminali e, di conseguenza, l’identificazione dei tentativi di infiltrazione mafiosa risultano a volte complessi, come dimostrato da alcuni recenti arresti della giurisprudenza di legittimità[2].
[1] In tal senso, “le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva di cui al comma 3 sono desunte: a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis, 629, 640-bis, 644, 648-bis, 648-ter del codice penale, dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e di cui all’articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione; c) salvo che ricorra l’esimente di cui all’articolo 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di cui agli articoli 317 e 629 del codice penale, aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, da parte dei soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo 38 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, anche in assenza nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione o di una causa ostativa ivi previste; d) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell’interno ai sensi del decreto-legge 6 settembre 1982, n. 629, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 ottobre 1982, n. 726, ovvero di quelli di cui all’articolo 93 del presente decreto; e) dagli accertamenti da effettuarsi in altra provincia a cura dei prefetti competenti su richiesta del prefetto procedente ai sensi della lettera d); f) dalle sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti di cui alle lettere a) e b), con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti coinvolti nonché le qualità professionali dei subentranti, denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia”.
[2] Si vedano, sul punto, Cass. pen., sez. VI^, 10 marzo 2015, n. 24535, Pres. Agrò, Rel. De Amicis e Cass. pen, sez VI^, 10 marzo 2015, n. 24536, Pres. Agrò, Rel. Mogini, nonché Rassegna della giurisprudenza di legittimità – Gli orientamenti delle sezioni penali – Anno 2015, a cura dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione, pagg. 144 e ss..